Enrico Letta tra San Paolo e San Bernardo
Anche se resterà formalmente in carica fino alla elezione del nuovo leader del Pd con le primarie di febbraio, sabato Enrico Letta ha pronunciato il suo ultimo discorso da segretario davanti all’assemblea nazionale del partito.
È stato un commiato – diciamo la verità – abbondantemente condito di retorica. Un’analisi costruita con antica sapienza democristiana tutta a discolpa dei propri errori, debolezze e responsabilità. Fingendo d’ignorare che la forza di un vero leader è nella capacità di convincere e far convergere la maggioranza del partito sulla propria linea strategica e operativa, Letta ha piuttosto comunicato la volontà di menare il can per l’aia: tutti colpevoli, nessun colpevole, soprattutto lui, del processo di liquefazione d’un Pd che fino a due anni fa era il maggiore e meglio organizzato partito italiano.
Ad ascoltare il segretario, sembra che quest’ultimo biennio del Pd sia stato gestito da un potere occulto creato – non si sa da chi – al solo scopo di mettere il bastone tra le ruote del leader. Anziché interrogarsi, e dare risposte, sul perché il Pd abbia dato di sé l’immagine di un bordello aristocratico, lasciando campo libero, da una parte alla destra di Giorgia Meloni nel ceto medio e perfino tra gli operai, dall’altra al M5S dell’impolitico populista “quattro stagioni” Giuseppe Conte, il segretario al capolinea ha preferito vestire i panni della vittima predestinata, ma sempre farfugliando l’identikit del presunto boia, ovvero omettendo di prendere una posizione netta e chiara come un vero leader dovrebbe assumersi la responsabilità di fare.
Il risultato finale del suo minuetto equilibrista tra le correnti di un Pd né carne né pesce, ormai ridotto a metafora del nulla politico, è stato un Manifesto ambiguo che rinvia tutto a un indistinto futuro, e che evidenzia come unica traccia l’immancabile manina sinistra “dalemiana” storicamente autodistruttrice.
Tuttavia, nell’ ultimo discorso da segretario, Letta non ha voluto rinunciare all’ “I have a dream” in versione romantico-stagionale: “Io vorrei che oggi fosse il 21 marzo, il primo giorno di primavera del nuovo Pd. Inizia una nuova stagione. Oggi è finito l’inverno”.
A parte l’anacronismo plastico restituito dal freddo e la neve di questi giorni (altro che inverno finito!) Letta non ha voluto nemmeno rinunciare – per contrappasso o per scongiuro rispetto alla primavera della nuova vita del Pd, scegliete voi – ad una citazione di San Paolo al tramonto della sua esistenza, quando riflette sul “momento di sciogliere le vele”. Salta gran parte del messaggio e ripete a memoria la parte finale, Letta: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”.
Invero, vale sottolinearlo, appare profondamente sincera, cristiana e dotta la citazione del principale apostolo di Gesù. Epperò – ahilui (lui Letta)! – si tratta di un riferimento decisamente inaderente alla realtà. Non può definirsi una “buona” battaglia, infatti, quella combattuta dalla segreteria Letta con il risultato di far scendere il Pd dal 21 al 14 per cento: sette punti persi in un anno, dieci mesi e 9 giorni, per di più con il rischio incombente della scissione, se non proprio lo scioglimento, del Partito Democratico.
Forse, invece di San Paolo, il segretario del Pd ancora per un mese avrebbe dovuto realisticamente ripassarsi e citare San Bernardo: “Chi si fa maestro di se stesso, si consegna per discepolo ad uno stolto” (nell’originale in latino: “Qui se sibi magistrum constituit, stulto se discipulum tradit”).
Ma questa è un’altra storia. È la storia dei veri leader politici.
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