L’epoca della post-verità

(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Mirella Napodano

– di Mirella Napodano –

Post-Truth è l’espressione inglese con cui oggi si definisce la situazione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o una notizia, la veridicità di quanto viene riferito sull’accaduto finisce con l’essere considerata dal pubblico come una questione di secondaria importanza rispetto all’impatto emotivo provato e ai più svariati commenti che può aver provocato sui social. In questi casi, ciò che conta nella comunicazione – e che la fa percepire ed accettare come socialmente significativa – non è tanto l’analisi concreta dell’effettiva e inconfutabile aderenza al reale dei fatti raccontati, quanto la sussistenza di emozioni e sensazioni tali da impressionare l’opinione pubblica. In altri termini, in una discussione caratterizzata dalla post-verità, i fatti oggettivi e chiaramente accertati (che i greci antichi avrebbero definito epistème) risultano essere meno influenti nel formare l’opinione pubblica (per i greci doxa) rispetto a quanto fa appello ad emozioni e convinzioni strettamente personali, spesso non verificate né verificabili alla fonte. Si tratta di quello che può definirsi in altri termini una leggenda metropolitana, intessuta su fatti manipolati o totalmente inventati nell’intento di delegittimare il comune sentire fino a formulare una teoria del complotto. Compaiono così vere e proprie ‘bufale’ che i social media hanno tutto l’interesse a diffondere in misura esponenziale. Di qui la fortuna degli opinion makers, letteralmente creatori di opinioni, che in filosofia potrebbero definirsi come fautori dell’iper-relativismo: una posizione che va al di là della pura e insopprimibile soggettività del pensare per celebrare il trionfo assoluto dell’opinabile individuale.

In una società ipermediale, caratterizzata da flussi ininterrotti di informazioni che si accavallano spesso contraddicendosi a vicenda, tende ad essere fortemente compromessa per il cittadino la possibilità di formarsi una chiara ed obiettiva visione degli avvenimenti – specie politici – pur facendo appello ad argomentazioni razionali. Appare in crescita esponenziale, invece, l’interesse per chi inventa e racconta storie, per cui la post-verità sembra essere diventata uno strumento efficace per la conquista e l’esercizio del potere, sia politico che mediatico/economico, con un’inevitabile compromissione del livello etico della vita democratica. E così può accadere perfino che i risultati elettorali per l’elezione di un capo di Stato rischino di essere considerati opinabili e diventino oggetto di violenta contesa in base a pretese narrazioni mediatiche prive di fondamento, come è puntualmente successo persino in un Paese di grande tradizione democratica come gli USA. Per giunta, ad un anno esatto dall’inammissibile attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 successivo all’elezione di Biden alla Casa Bianca, abbiamo dovuto assistere in questi ultimi giorni – a Brasilia – ad analoghi gesti di incontenibile arroganza e prepotenza da parte di gente facinorosa, che manifestava con gesti di inqualificabile violenza terroristica in favore del dittatore Bolsonaro, sconfitto sul filo di lana nelle ultime elezioni presidenziali dal rivale Lula.

Nato in un solco strettamente politico, il termine post-verità si è diffuso in particolare dopo la sconfitta del referendum costituzionale del 2016, quando lo usò Matteo Renzi, rivolgendosi ai giornalisti all’atto delle sue dimissioni da presidente del Consiglio dei ministri. In seguito, tale espressione è andata diffondendosi anche in altri settori, rischiando di straripare nell’ambito di fenomeni sociali come la questione dei migranti, per esempio, o quella della comunicazione scientifica: (La post-verità) è per ragioni identitarie il rifiuto di ogni sapere, filosofico, tecnico, scientifico, perché su quello si baserebbe il potere delle élite. Essa è quindi la negazione di ogni “verità”, e non certo nel senso popperiano della sua falsificabilità per cui tutto può andar bene: le scie chimiche, il finto allunaggio della NASA, la pericolosità dei vaccini e la causa dell’autismo.(Debenedetti, 2017)

L’effetto sulla pubblica credibilità di questo metodo è dirompente, in quanto induce a credere che non esistano fatti accertati e tanto meno un metodo per controllarli, in aperta contraddizione con la migliore tradizione della ricerca storiografica, che impone di riscontrare preliminarmente l’attendibilità delle fonti documentarie prima di registrare una notizia. È come se si fosse all’improvviso spezzata la cinghia di trasmissione tra gli avvenimenti, i cittadini e le istituzioni: un fenomeno che l’Avvenire definisce, mutuandola dal linguaggio filosofico, immanentizzazione della verità. Per usare una vecchia metafora cara al sociologo Bauman, la verità sembra divenuta liquida, vista la tendenza che ormai ha assunto nel prendere la forma del contenitore sociale in cui si deposita. Ma è ancora una volta dalla filosofia che può generarsi l’unico baluardo efficace per arginare questo increscioso fenomeno, incrementando nella scuola e nella società il pensiero critico come processo mentale costante e comunitario. Infatti, è solo l’analisi critica dei dati, connessa al confronto dialogico, che può condurre ad una valutazione della realtà quanto più obiettiva possibile, avulsa dall’inquinamento prodotto dalla perpetua propaganda di scadenze elettorali e interessi privatistici di varia natura.

Risuona a proposito – nella sua perenne attualità – il monito evangelico: Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi (Gv 8,32). Di certo non c’è verità senza libertà e viceversa; entrambe però si vendono a caro prezzo, come ben sanno i martiri della libertà della storia di tutti i tempi; come stanno sperimentando in questo preciso momento le donne e i giovani iraniani che si oppongono strenuamente all’odioso regime dei talebani, rischiando la pena di morte – o forse peggio ancora – una condanna a tempo indeterminato al carcere duro, destinata a trasfigurare in olocausto ogni loro radioso impulso di giovinezza. Sì, perché il diffuso vezzo della post-verità, nella sua falsità, è una frode cognitiva che si nutre avidamente di corruzione; è un humus che fa proliferare la seduzione dell’immoralità a tutto vantaggio di turpi interessi di potere economico e geo-politico, seminando conflitti, palesi ingiustizie e confusione di idee nella pubblica opinione. Le fake news, che talvolta suscitano persino la nostra ilarità, altro non sono che la punta dell’iceberg della paludosa matrice ingannevole della post-verità: il rumore di fondo della nostra decadente quotidianità.

A volte la verità può invece albergare in una canzone, specie se a proporla è un tipo come Giorgio Gaber:

Io sono nato e vivo a Milano
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono…
Mi scusi Presidente se arrivo all’impudenza
di dire che non sento alcuna appartenenza.
Ho in mente il fanatismo delle camicie nere
al tempo del fascismo, da cui un bel giorno
nacque questa democrazia.
Che a farle i complimenti ci vuole fantasia…
Sarà che gli italiani, per lunga tradizione,
son troppo appassionati di ogni discussione.
Persino in Parlamento c’è un’aria incandescente.
Si scannano su tutto e poi non cambia niente
.

E poi, come non rifarsi alla vox clamans in deserto del Pasolini corsaro, profeta della ‘verità’, per la sua denuncia dei potenti e della corruzione, volta ad invocare l’avvento di una catarsi all’italiana – nel senso positivo – fatta di apparente nostalgia per un sottoproletariato felice del poco che ha, addirittura entusiasta della propria esclusione e come tale in possesso del ‘mistero della realtà’. In realtà Pasolini ci propone un modello di vita quasi stilizzato, una cura sui, fatta di verità implicita da vivere nelle passeggiate solitarie per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani. Perché la verità si può dire solo facendola, anzi, facendo di sé stessi una verità. É il concetto espresso nel dialogo delle Nuvole tra Totò (Jago) e Ninetto Davoli (Otello) che chiede:

“Ma qual è la verità? È quello che penso io di me, è quello che pensa la gente o è quello che pensa quello là lì dentro?”

“Cosa senti dentro di te? Concentrati bene,” risponde Totò.

“Sì, sì, si sente qualcosa che c’è.”

“Quella è la verità… ma sssh… non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c’è più”…

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