L’attimo fuggente
(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Mirella Napodano
– di Mirella Napodano –
Pochi film come L’attimo fuggente (Dead poets society,1989, regia di Peter Weir) hanno segnato indelebilmente la storia mondiale del cinema, e non solo per l’eccezionale bravura di Robin Williams nella parte di John Keating: il professore (ex allievo della stessa scuola) che sembra divertirsi a sconcertare con le richieste più inusuali un’intera classe di studenti in giacca e cravatta di un ingessato collegio maschile del Vermont. Il titolo scelto per la versione italiana del film secondo me non rende del tutto l’idea di quell’insopprimibile inno alla libertà che pervade l’intera pellicola, anzi rischia di essere fuorviante, inducendo un’interpretazione riduttiva di un’opera che è tutt’altro che l’invito ad una gaudente ricerca di gratificazioni estemporanee. Bisogna anche considerare, però, che la Setta dei poeti estinti – traduzione letterale del titolo originale – sarebbe stata una soluzione altrettanto elusiva ed enigmatica. Del resto, la difficoltà stessa della traduzione del titolo dice già della complessità del messaggio di questo film, intessuto di una singolare narrazione di forte rilevanza filosofica. Dire infatti Carpe diem (Orazio Odi 1,11,8) ad un gruppo di adolescenti non è un invito a spassarsela rincorrendo forsennatamente tutti i possibili piaceri della vita (cogli la rosa quando è il momento, che il tempo lo sai vola e lo stesso fiore che sboccia oggi domani appassirà) ma un’esortazione a rendere straordinaria la propria esistenza vivendone appieno l’unicità e l’irripetibilità, quasi alla maniera di Andrea Sperelli, protagonista del romanzo Il Piacere di Gabriele D’Annunzio. Si tratta di un approccio epicureo alla felicità intesa come assenza di dolore, pur nell’imprevedibilità del futuro, che andrebbe vissuto senza lasciarsi fuorviare dal conformismo imperante nella società in forme esplicite o – peggio ancora – ipocrite e sotto traccia. Da un punto di vista, se vogliamo, laicamente profetico, carpe diem potrebbe stare ad indicare anche la necessità di cogliere i segni dei tempi, per interpretare la contraddittoria realtà circostante – specie in questo aleatorio clima elettorale! – e vivere consapevolmente il nostro percorso personale e comunitario. Tuttavia, l’ormai consolidato fraintendimento del verso oraziano ha purtroppo attraversato le forme della pseudocultura per molti secoli e ancora sopravvive nella vulgata popolare.
La passione per la vera cultura traspare invece da ogni gesto del prof Keating, persino quando paradossalmente induce gli studenti a strappare alcune pagine di critica letteraria dall’antologia, intessute di inutile retorica. Si direbbe che il protagonista del film si diverta ad interpretare il ruolo del professore ideale che avrebbe voluto avere lui stesso quando era studente. E i ragazzi si sintonizzano prontamente con gusto e complicità sul suo messaggio, riportando in vita il gruppo clandestino di poeti estinti del quale il prof Keating alla loro età era stato fondatore in quello stesso Liceo. Nessuna meraviglia quindi se Keating, con uno di quei suoi guizzi geniali, all’improvviso salta in piedi sulla cattedra dichiarando la propria volontà di vedere il mondo da un altro punto di vista e invitando gli studenti a fare altrettanto dai loro banchi. È il momento più emozionante di una filosofia agita, realizzata, vissuta attraverso la fisicità di uno spostamento inusuale che non produce solo sorpresa ma spaesamento, stupore, cambiamento, voglia di ricerca da cui trae origine ogni forma di conoscenza. È l’attimo che sancisce tra l’altro l’istituzione di un nuovo linguaggio gergale nella classe, di cui l’invocazione: Capitano, mio Capitano costituisce la più efficace espressione. Che cos’è infatti la filosofia se non l’attitudine ad attraversare diversi punti di vista, ad incrociare singoli linguaggi e integrarli fino a comporre una visione del mondo (quella che i tedeschi chiamano con una bella e intraducibile parola Weltanschauung) più intensa ed articolata? Del resto, al di fuori di questo approccio esistenziale, può ben dirsi che molti uomini hanno una vita di quieta disperazione, dalla quale il geniale professore fa di tutto per salvaguardare i propri alunni.
La poesia, la bellezza, l’amore, la passione, il romanticismo: sono queste le cose che ci tengono in vita e il potente spettacolo continua mentre tu puoi contribuire con un verso ad aumentare questo incessante flusso di energie intorno a te. Ho voluto spesso far visionare in classe dagli studenti attraverso la lavagna multimediale alcune scene di questo film durante i miei laboratori di filosofia dialogica; il coinvolgimento emotivo è stato sempre immediato ed efficace, soprattutto nell’ottica di una visione della filosofia come scienza relazionale, oltre che – beninteso – speculativa. L’antropologia filosofica dimostra a chiare lettere fino a che punto parole, idee e relazioni possano cambiare il mondo, la sua storia, il suo destino. Ed è un processo quotidiano, che si svolge sommessamente davanti ai nostri occhi senza far rumore, ma di cui dobbiamo avvertire tutta l’incombente responsabilità, specie in tempi difficili come quelli che stiamo attraversando. Per questo occorre dar voce a chi non ha voce, secondo la perenne lezione di don Lorenzo Milani. Ostinarsi a continuare a negare visibilità e ascolto a gran parte dell’umanità, lasciandola nella migliore delle ipotesi ad una stentata sopravvivenza priva di prospettive, è un omicidio/suicidio intellettuale prima che morale. È l’avarizia di una vita caratterizzata da una visione miope e autocentrata, cui il Priore di Barbiana contrappone la Politica, quella nobile e vera, in perfetto accordo con il più grande profeta laico dei nostri tempi, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita, Pier Paolo Pasolini.
Due strade trovai nel bosco e io scelsi quella meno battuta, ed è per questo che sono diverso. Certo, la strada meno battuta è quella più scomoda, che richiede un’adeguata attrezzatura per essere attraversata, insieme ad una grossa dose di coraggio per affrontare la solitudine e il prevedibile abbandono in corso d’opera anche da parte di persone care. Nessun giudizio spocchioso va però espresso contro coloro che non se la sentono di affrontare tanti disagi e preferiscono piegarsi alle leggi di una quotidianità prudente e un tantino sonnacchiosa: adeguarsi al senso comune, sottostare alle decisioni altrui per conformismo è un atto di deresponsabilizzazione personale che ha a che fare anche con la disistima di sé, di cui non sempre siamo moralmente responsabili. E in ciò, ancora una volta, viene in soccorso una frase rivoluzionaria di don Milani: L’obbedienza non è più una virtù, che starebbe bene anche in bocca a John Keating e che dà il titolo alla pubblicazione (Libreria Editrice Fiorentina, 1967) dei documenti del processo che il Priore dovette affrontare quando difese la tesi della liceità dell’obiezione di coscienza rispetto alla guerra, anticipando di almeno sessant’anni la normativa vigente. Vale la pena di leggerne qualche passaggio, inevitabilmente (o santamente?) polemico: Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.
Oh, quanto mi piacerebbe mettere don Milani a far parte di quella setta di poeti estinti!
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