Il re degli alberi

(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Mirella Napodano.

– di Mirella Napodano –

Si misero in cammino gli alberi
per ungere un re su di essi.
Dissero all’ulivo:
‘Regna su di noi’.
Rispose loro l’ulivo:
‘Rinuncerò al mio olio,
grazie al quale si onorano dei e uomini
e andrò ad agitarmi sugli alberi?’
Dissero gli alberi al fico:
‘Vieni tu, regna su di noi’.
Rispose loro il fico:
‘Rinuncerò alla mia dolcezza
e al mio frutto squisito
e andrò ad agitarmi sugli alberi?’
Dissero gli alberi alla vite:
‘Vieni tu, regna su di noi.’
Rispose loro la vite:
‘Rinuncerò al mio mosto
che allieta dei e uomini
e andrò ad agitarmi sugli alberi?’
Dissero tutti gli alberi al rovo:
‘Vieni tu, regna su di noi’.
Rispose il rovo agli alberi:
‘Se in verità mi ungerete re su di voi,
venite, rifugiatevi alla mia ombra.
Se no, esca un fuoco dal rovo
e divori i cedri del Libano’.

Giudici, 9,8-15

Provo sempre una strana inquietudine ogni volta che leggo questo apologo biblico, tratto dal Libro dei Giudici, la cui redazione definitiva – operata da autori ignoti – è collocata dagli esegeti biblici nella Giudea del VI-V secolo avanti Cristo. È un’inquietudine frammista a stupore, che inevitabilmente si produce in me nel contemplare la mirabile, sintetica – e solo apparentemente ingenua – descrizione dell’insolita campagna elettorale posta in essere dal popolo degli alberi, ansiosi di essere governati. Sarebbe bello e assai istruttivo poter partecipare ad un commento midrashico di questo brano, per ascoltare le varie interpretazioni che ne danno i rabbini, le loro considerazioni ironiche, inevitabilmente accompagnate dagli innumerevoli esempi storici e di attualità che si potrebbero trarne ad edificazione dei partecipanti. Nell’attesa del verificarsi di un simile evento dialogico in presenza, proviamo ad esprimere in questa sede qualche commento ‘a caldo’. D’altronde, se siamo – come pare – nell’estate più afosa da un secolo e mezzo a questa parte, e per giunta anche noi (come il popolo degli alberi) in una campagna elettorale inusitata quanto inaspettata, la sfida di un testo come questo ci sta tutta quanta.
Sarebbe fin troppo facile attribuire subito ai personaggi metaforici di questo apologo (e soprattutto all’antipatico, arrogante rovo) nomi e cognomi che ricorrono quotidianamente nelle cronache politiche dei nostri telegiornali, ma preferisco lasciare a voi questo edificante esercizio, da praticare in buona compagnia tra un cruciverba e l’altro sotto l’ombrellone. Per quanto mi riguarda, io voglio piuttosto ‘contemplare’ questo testo: apprezzarne l’estrema lucidità, l’inevitabile pessimismo cosmico in stile proto-leopardiano, sebbene palesemente riferito alla politica e non alla natura, che (pure) di tanto inganna i figli suoi.
Ma osserviamo uno per uno i protagonisti di questa stravagante narrazione. L’ulivo, interpellato per primo, sembra rimanere quasi interdetto all’insolito invito propostogli in coro dagli altri alberi. Sembra chiedersi: “Ma come, proprio io che produco l’olio dovrei farmi ungere da questi qua? Ma come si permettono di turbare la mia serenità invitandomi a perdere la pace, faticosamente conquistata in tanti anni di lavoro, per dar seguito alle loro richieste contraddittorie, interessate e qualunquiste? Sarei un matto ad accettare.” Il tono della sua voce, nell’esprimere il suo diniego, dovette essere talmente perentorio che nessuno degli alberi presenti osò replicare e il gruppo dei postulanti andò oltre.
C’era infatti poco più in là un altro candidato di uguale spessore, meno aristocratico del precedente e proprio per questo forse più gradito ai populisti: il fico. Per il passato, nei tempi dei tempi, si era già reso benemerito per l’utilizzo delle sue foglie, che erano servite a coprire le pudenda della prima coppia umana, scopertasi all’improvviso peccatrice dopo aver assaggiato il frutto proibito e da quel momento divenuta incline al pudore. Ma i tempi erano cambiati e ora il fico era richiestissimo sul mercato per i suoi dolci frutti, da consumare appena colti – possibilmente nella calura – all’ombra del suo ampio fogliame. Manco a dirlo, fu proprio questa l’obiezione cui si appellò il frondoso fico, con argomenti inoppugnabili che scoraggiarono gli altri alberi dall’insistere nel tentativo di coinvolgerlo nei loro scaltri piani pre-elettorali.
Un tantino scoraggiata dalle impreviste difficoltà della ricerca, la delegazione degli alberi si rivolse allora fiduciosa alla vite, pianta dall’aspetto certo meno appariscente degli altri candidati, ma non meno gettonata nella società per i suoi dolci grappoli, che molti avevano già imparato a trasformare in vino spumeggiante da utilizzare nei banchetti e in tutte le occasioni in cui si volesse far festa. E da che mondo è mondo si sa che il popolo vuole dai governanti le tre F: Farina, Forca e Festa, dovettero pensare i volenterosi, infaticabili procacciatori di candidature. Ma il diniego da parte della vite non si fece attendere, proprio in nome di quel mosto così prelibato da essere definito il nettare degli dei.
La ricerca volgeva al termine e i delegati non volevano assolutamente tornare a casa senza aver trovato un possibile re, per cui si rivolsero quasi automaticamente e senza convinzione alla prima pianta che videro stazionare lì vicino, sebbene esibisse un fare sospettoso ed arcigno. Si trattava di un rovo, sempre sulla difensiva, con tutte quelle spine che non ti permettono neppure di avvicinarti. Come fu e come non fu – vuoi per stanchezza, vuoi per dabbenaggine – l’offerta della candidatura fu rivolta proprio a lui, che non se lo fece ripetere due volte pensando fra sé: “E quando mi ricapita un’occasione come questa?” Pronunciò invece ad alta voce – insieme alla formula di accettazione – la sua prima bugia da regnante, invitando i delegati a rifugiarsi sotto la sua ombra. Ma quando mai un rovo ha fatto ombra a qualcuno? E quali sono i suoi frutti, visto che altrove si dice che l’albero si riconosce dai suoi frutti? Per cogliere le more, quando le trovi, ti graffi le braccia fino al gomito e il rovo quasi ti rinfaccia di avergliele tolte. E poi quella minaccia gratuita di far divorare dal fuoco i cedri del Libano, gli alberi più nobili del creato, a che scopo fu pronunciata? Non nascondeva forse una rabbia atavica, una profonda insoddisfazione, una psicotica voglia di rivalsa, una ferita narcisistica da vendicare? Sigmund Freud non era ancora nato, ma la vasta fenomenologia nevrotica e psicotica imperversava evidentemente già da allora. Fatto sta che il rovo si fece conoscere quasi subito per quello che era e – regolarmente eletto a furor di popolo – inaugurò la lunga (e ahimé forse interminabile?) schiera dei dittatori che hanno seminato e continuano imperterriti a seminare nel mondo morte e desolazione.
Ad elezione avvenuta, sicuramente dovette esserci una lunga (e segreta) discussione tra i delegati degli alberi, perché nessuno si poteva capacitare di come si fosse giunti ad eleggere proprio il peggiore dei possibili candidati. Eppure era successo! Qualcuno osò dire che la ‘colpa’ poteva ricadere – certo ripartita in parti uguali – anche ai primi alberi che erano stati interpellati e avevano preferito continuare a fare le proprie cose piuttosto che mettersi al servizio degli altri. Ci fu anche chi azzardò una citazione scientifica, che ha a che fare con la fisica: la legge dei vasi comunicanti, per cui se lasci uno spazio vuoto prima o poi viene occupato.
Saggezza antica, elaborata nelle narrazioni, sedimentata nell’esperienza, vissuta nella fatica e nella sofferenza, quante cose puoi ancora insegnarci… Secondo Pio XI (Achille Ratti 1857-1939) La Politica è la forma più alta di carità: il culmine di un pensiero religioso rivolto al bene comune.

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