Il male della gelosia
Nel nostro intimo, governato dall’istinto di conservazione dei beni della vita, si agitano le passioni, latenti o palesi, numerose.
Tra esse l’invidia è il desiderio morboso di ciò che, posseduto da altri, non si ha. La gelosia è invece il timore ossessivo di perdere ciò che si crede di possedere principalmente in campo amoroso.
Essa, a volte, esorbitando dalla sfera puramente psicologica, degenera, anche se in via transitoria, in un vero e proprio squilibrio mentale, tale da oscurare o attenuare la coscienza e da paralizzare totalmente o notevolmente i freni inibitori e, con essi, la volontà.
Può provocare disordine nelle funzioni della mente e della volontà stessa, così divenendo una forma morbosa. Ma, anche senza giungere a questa patologia, la gelosia dà spesso adito al grande male, sempre più attuale, dell’inconcepibile volenza dell’uomo debole sulla donna, quale oggetto di una sua assurda pretesa di possesso, sino ad arrivare allo sfregio del volto o addirittura al femminicidio. Infatti il geloso perseguita la donna, ma sovente è lui stesso un debole anche se si comporta con lei da prepotente.
Potremmo, quindi, dire “Vir aemulus mulierem exagitat, sed ipse saepe hebes est, et tamen cum illa insolenter se gerit”.
Invero è proprio lui un illuso, perché teme di perdere un possesso che invece non ha (“Ipse somnians est, quia timet ut dominium amittat, quod tamen non habet!”).
È anche un ipocrita, perché condanna il tradimento di lei, ma poi nasconde o giustifica quello proprio (“Uti simulator etiam agit; nam perfidiam mulieris reprehendit, et contra suis ipsius celat vel excusat”).
È prepotente verso quella, perché pretende fedeltà senza però meritarla (“In illam insolenter agit, fidem ab ipsa postulans sed sine merito suo”).
Ed è anche un vigliacco. Infatti si impone a lei con facile violenza (“Ignavus praeterea est. Voluntatem suam mulieri facile vi enim imponit”).
Ma soprattutto è un delinquente perché si ritiene legittimato persino ad un femminicidio (“Sed ille praecipue sceleratus videtur, cum se putat etiam ad mulieris occisionem probatum”), di cui si compiace come per un suo diritto, al sommo delle sue perversioni (“quare ipse gaudet, ut iure suo, in summis eius depravationibus”).
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