Vivere accanto a una stella
Con un’intuizione non nuova né recente, perché forse innata nel suo pensiero, l’uomo per natura vagheggia la propria sopravvivenza dopo la vita terrena sedotto dal miraggio dell’immortalità.
Già gli antichi Egizi ritenevano che l’uomo potesse continuare a vivere o comunque ad esistere al di là della morte, perché consideravano questo non come un evento traumatico o finale, bensì come passaggio necessario per la vita eterna o come sospensione momentanea del continuo fluire dell’esistenza, in attesa di conseguire l’immortalità attraverso l’imbalsamazione del corpo e la proiezione dei riti funerari.
Infatti, per sopravvivere alla morte, era per essi necessario che il corpo del defunto si mantenesse intatto (o quasi); e ciò era possibile con la mummificazione, al cui procedimento sopraintendevano, appunto, i sacerdoti con una tecnica che mantennero fino all’epoca romana.
Quasi prodigioso fu il ritrovamento, nel 1881, del corpo mummificato (e tuttora conservato al Museo del Cairo) del grande faraone Ramses II, l’uomo che regnò molto a lungo (66 anni) e che conobbe Mosè.
Già la remota civiltà egizia aspirava a considerare la vita come un cammino che potesse continuare nella luce dell’aldilà, oltre il buio della morte configurando non soltanto la divinità di Osiride quale sovrano del regno dei morti, ma anche il Sole nel suo viaggio notturno (cui potevano partecipare anche i defunti) sino alla sua dodicesima ora, nonché Iside di cui uno degli aspetti era quello di dea solare.
Differente da questo sentimento della vita oltre la morte è, invece, quello espresso dal Foscolo, il quale, rivolgendosi alla sera, che gli ricorda la ”fatal quiete della morte”, esprime il mesto pensiero di “vagar sull’orme che vanno al nulla eterno”, dove niente più esiste o continua.
Una particolare e poetica eco pervenne altresì a Catullo, che, esortando Lesbia a vivere ed amare, prospettava, una volta spentasi la breve luce della vita, il destino di dover dormire una notte senza fine (“Nobis cum semel occidit brevis lux,/nox est perpetua una dormienda”), a differenza delle giornate che. illuminate dal sole, tramontano ma poi ritornano (“Soles occidere et redire possunt”).
Ma l’esaltazione eccezionale del sole, elevato addirittura ad unico dio da adorare, in sostituzione al culto di una pluralità di dei (sostenuto invece dai potenti sacerdoti e sentito dalla stessa popolazione dell’epoca), fu, nell’antico Egitto, quella coraggiosamente introdotta dal faraone Amnophis IV (1370-1352 a.C.), poi chiamato Akhenaton, col quale iniziò il cosiddetto periodo amarniano (dal nome attuale della città di Tell el Amarma, che egli si fece costruire e dove trasferì il suo regno ).
Questo faraone, figlio della regina Tiy e successore di Amenophis III, sposò la propria cugina, la bellissima Nefertiti; egli aveva una fisonomia assai particolare ed una salute che peggiorò con l’età, ma tuttavia ebbe molti figli; considerato “ebbro di Dio”, fu poeta e sognatore, sensibile alla bellezza, all’umanità e alla giustizia, ma si rivelò accanito nel voler cancellare il culto di Ammone e degli altri antichi dei egizi, a vantaggio de solo culto di Aton, il dio rappresentato dallo splendente disco del sole.
Fu appassionatamente innamorato di sua moglie Nefertiti, che, dopo la sua morte, governò il regno, assicurando la reggenza del figlio Tutankhamon avente all’epoca solo nove anni.
Successivamente, lasciata la capitale eretica di Amarma, questo nuovo faraone ritornò a Tebe, dove fu festeggiato e venne ripristinato il culto tradizionale di Ammone, mentre i suoi sacerdoti si riappropriarono dei loro templi, scuole e privilegi.
E così ebbe fine quella parentesi monoteista dedicata all’adorazione del sole quale unica divinità dell’antico Egitto.
Ma, attualmente, in noi, transitori “inquilini” di questo pianeta, pur adorando tutt’altro come unico vero Dio, è tuttavia rimasta viva ed irrinunciabile la bramosa considerazione del sole, come di una stella di cui non potremmo fare a meno, intorno alla quale giriamo senza tregua, ricevendone la luce e la vita, tanto ad essa vicini da sentirne perfino il calore.
Peraltro, della sua immagine, oltre a noi tutti, sono particolarmente amatori poeti ed artisti; i quali la hanno anche collegata allo stesso sentimento dell’Amore, come nella canzone, universalmente nota, che, in napoletano, fa esclamare “Che bella cosa è ‘na jurnata ‘e sole”, e fa ravvisare un sole ancora più bello (e personale) sul volto dell’amata (“Ma n’atu sole/cchiù bello oi ne’,/ ‘o sole mio/ sta ‘nfronte a te!”).
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