Il buon costume
(Franco Genzale) – Consiglio vivamente la lettura di questo particolare capitolo della serie “Umanità” proposta per noi da Gabriele Meoli, magistrato in pensione dallo
straordinario spessore culturale, non solo in materia giuridica, ma in tutte le discipline umanistiche.
Inviterei a porre l’attenzione, soprattutto, sulla spiegazione del concetto di “buon costume” riferito alla morale corrente. In esso, allargando il campo di interpretazione alla vita politica, ho implicitamente letto la causa – credo maggiore – della crisi dei partiti che non si riesce ancora a superare e che, a sua volta, é tra le cause principali dell’affanno di larga parte del nostro sistema istituzionale.
Buona lettura. E un grazie sempre all’Amico Meoli per la sua preziosa collaborazione.
– di Gabriele Meoli –
La vita di noi consociati si svolge sotto il governo di regole giuridiche ed anche soltanto morali. Questi due valori in massima parte sono pure coincidenti, essendo giusto che si consenta solo ciò che è anche conforme ai principi etici o, viceversa, che ciò che eticamente è approvabile debba essere anche giuridicamente permesso. Ma talora i due mondi del diritto e della morale non sono perfettamente conformi, affermandosi, ad esempio, che “non omne quod licet iustum est”.
Peraltro, l’ordinamento, quando recepisce o si collega a regole morali intende di regola riferirsi, non alla morale rigorosa ed immutabile, bensì alla cosiddetta “morale corrente” parlando di “buon costume”. Invero, con questa espressione si deve intendere il complesso delle regole non solo del pudore sessuale e della decenza, ma anche di tutti quei principi etici che universalmente adottabili, costituiscono la morale sociale, perché ad essi uniforma il suo comportamento la generalità delle persone oneste, corrette, di buona fede e di sani principi, in un determinato ambiente ed in una determinata epoca. Pertanto le regole del buon costume sono, come quelle dell’ordine pubblico, anch’esse variabili; e tale carattere si accentua quanto più una società è instabile, non omogenea ed in evoluzione; nel qual caso i canoni su cui esiste il consenso della generalità dei consociati tendono a ridursi.
E’ quindi evidente che il criterio per giudicare dell’immoralità di un atto è di per se stesso relativo e contingente e che non tutto ciò che sia difforme dai precetti di un’assoluta e rigorosa moralità deve riguardarsi come immorale; essendo tale soltanto l’atto che sia contrario a quell’uso od a quale costume, oggettivamente invalso secondo il sentimento etico comune, che sia espresso dal variabile grado di sviluppo della coscienza morale di un popolo in un determinato tempo e luogo.
Orbene l’immoralità, quando veramente esista, si rileva immediatamente, senza alcuna incertezza ed in maniera sensibile, poiché la coscienza collettiva avverte in sé uno stato di turbamento ed indignazione di fronte a quelle azioni turpi od inique che “laedund pietatem, extimationem, verecundiam nostram” (fr. 15, D.26.7).
Questa diffusa reazione della coscienza sociale, anche esteriormente percepibile, serve di guida al giudice nell’apprezzamento dell’atto o del negozio e gli dà la certezza che la regola morale, la quale sia stata violata, è effettivamente penetrata nel costume del popolo, ispirato all’osservanza dei “boni mores”; all’obbiettiva valutazione di tale costume egli deve soltanto badare e, reprimendo il suo elevato sentimento etico, non deve attingere alla propria coscienza se non ciò che riflette l’uniforme e corrente sentimento della coscienza sociale, formatasi in relazione alle particolari circostanze corrispondenti a quelle del negozio sottoposto al suo esame.
Sono esempi di contrarietà al buon costume:
Il patto con cui un uomo politico si impegni a lasciare clamorosamente il proprio partito, dietro compenso, per favorire la propaganda di un partito avverso; ovvero uni sportivo si impegni, dietro compenso, a non partecipare od a partecipare male ad una gara per favorire la possibilità di altro concorrente;
Il patto di meretricio;
I contratti per l’organizzazione e la gestione di una casa di appuntamento (tuttavia il contratto di lavoro subordinato stipulato con il tenutario di una casa di tolleranza non è nullo per l’illeceità della causa, quando le incombenze del prestatore d’opera, in sé e per sé non turpi, perché consistenti nella pulizia de locale e della biancheria, siano collegate con l’esercizio del meretricio in un rapporto esclusivamente occasionale ed accessorio;
Le donazioni ed i lasciti testamentari in favore dell’amante, allorché abbiano un carattere di remunerazione tale da fare assumere al rapporto un carattere mercenario o siano compiuti trascurando i propri doveri familiari, secondo i criteri della morale corrente;
Il mutuo fatto dal gestore di una casa da gioco al cliente per consentirgli di continuare a giocare anche se trattisi di casa da gioco autorizzata, perché l’autorizzazione esclude l’applicabilità delle sanzioni penali, ma non elimina la contrarietà al buon costume.
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