Il Ratto delle Sabine

Gli storici di ogni letteratura hanno il grande merito di averci rievocato e preservato dall’oblio del tempo eventi e personaggi apparsi sulla scena di vita dell’umanità nei vari momenti di essa.

È così, infatti, che possono rivivere, dagli scritti di Tito Livio “Ab urbe condita libri” (nonostante l’irreparabile perdita di gran parte dell’opera), anche i primi passi della nascente città di Roma, destinata a diventare la più grande potenza e civiltà del mondo antico.

Già all’epoca dell’inizio, il suo primo re (Romolo), affinché si potesse realizzare da quei primi insediamenti umani un unico organismo politico (“coalescere in populi unius corpus”), dettò norme (“iura dedit”), che rese anche più rispettabili non solo col suo personale aspetto ma anche circondandosi di dodici littori (L. 1° 8).

E intanto la sua città si ampliava in territorio ed abitanti (“crescebat interim urbs), anche per l’offerta di asilo fatta a gente d’ogni sorta, ivi convenuta dai popoli vicini. Pertanto Romolo, per queste crescenti forze, istituì anche cento senatori che, per la loro dignità, furono chiamati “padri”, e “patrizi” i loro discendenti (“Patres certe ab honore, patriciique progenies eorum appellati”).

Permaneva, tuttavia, un delicato problema demografico, atteso che la nuovissima popolazione della neonata città di Roma, forse a causa della sua originaria natura “agricola-pastorale” e poi “militare”, registrava l’inconveniente di avere una netta maggioranza della sola componente maschile; per ovviare al quale, non erano valse le iniziali strategie adottate da Romolo, che aveva inviato legati ai popoli vicini per convincerli a consentire che le loro giovani donne si trasferissero a Roma, allo scopo di contrarre ivi matrimonio.

Infatti, lo stato romano era già così forte da poter prevalere sugli altri popoli, ma per la scarsezza di donne sarebbe potuto durare per una sola generazione in mancanza di connubi (“Iam res romana odeo erat valida ut cuilibet finitimarum civitatum bello par esset; sed penuria mulieris hominis aetatem duratura magnitudo erat, quippe quibus nec domi spes prolis nec cum finmitimis conubia essent” Livio I,9). Senonché a tal riguardo, dalle sollecitazioni ai vicini pervenivano soltanto rifiuti e diffidenza (“Nusquam benigne legatio audita est: adeo simul spernebant, simul tantam in medio crescentem molem sibi ac posteris suis metuebant” Livio, ibidem).Il re, allora, nascondendo il suo disappunto (“Romulus, aegritudinem animi dissimulans”), decise di celebrare per la prima volta, dei giochi pubblici (ludi), in omaggio al dio Neptunus equester, così provocando l’affluenza, dai territori vicini, di moltissime persone, in prevalenza Sabini, interessati ad assistere a tali giochi nonché a visitare la nuova città; nella quale, pertanto, essi convennero con le rispettive famiglie.

Senonché, per un prestabilito piano, durante lo spettacolo i Romani rapirono le fanciulle presenti, mettendo, sulle prime, in fuga i loro familiari e gli altri ospiti, rimasti però in collera per quanto subìto, nonostante i buoni propositi confermati dai rapitori, che intendevano tenere seco quelle giovani quali legittime spose, come già si cominciò subito ad attuare con la successiva celebrazione di molte nozze con esse.

Romolo in persona andava tra i Sabini per rappresentare che ciò che era accaduto derivava dalla superbia dei padri delle fanciulle stesse, i quali avevano rifiutato che avvenissero connubi con i vicini (“ipsus Romulus circumibat docebatque patrum id superbia factum qui connubium finitimis negassent” Livio, I, 13).

Assicurava altresì che quelle fanciulle sarebbero state tenute come mogli e fatte partecipi di tutti i beni e diritti, nonché dei figli, cioè di quanto nulla è più caro agli uomini (“illas tamen in matrimonio, in societate fortunarum omnium civitatisque et quo nihil carius humano generi sit liberum fore” Livio, ibidem). Concorrevano anche le moine dei mariti, che giustificavano l’accaduto con l’ardore della passione, preghiere queste che maggiormente hanno effetto nell’animo femminile (“accedebant blanditiae virorum, factum purgantium cupiditate atque amore, quae maxime ad muliebre ingenium efficaces preces sunt” Ibidem).

Tuttavia queste “pie intenzioni” e buoni atteggiamenti dei Romani rapitori non valsero a placare l’ira dei Sabini, specialmente dei prossimi congiunti delle fanciulle, per l’affronto patito anche in violazione ai sacri diritti dell’ospitalità; sì che ne scaturirono scontri armati, che si protrassero e si ampliarono, coinvolgendo progressivamente le varie popolazioni circostanti, con alterne vicende di lotta.

Ad un punto, le sorti della contesa si stavano anche volgendo a favore dei Sabini (i maggiori danneggiati per la sottrazione di donne), in forza del tradimento della vestale Tarpeia (figlia del comandante Spurio Tarpeio), che lasciatasi corrompere da ricompense in oro dei Sabini, ne favorì l’entrata e la conquista dalla rocca del Campidoglio. Ma, poi, secondo la leggenda, gli stessi Sabini uccisero Tarpeia, ammucchiando su di lei il peso dei loro scudi, forse così interpretando la condizione posta dalla traditrice di ottenere per compenso ciò che essi portavano nella “mano sinistra”, che in effetti solevano tenere ornata, sul braccio, di pesanti braccialetti d’oro ed, al dito, di bellissimi anelli (i Romani, successivamente, coprirono d’infamia quel nome chiamando Tarpeia l’alta rupe del Campidoglio da cui precipitavano i malfattori).

Per pacificare, però, gli animi dei contendenti si intramisero proprio quelle giovani donne ormai “trasferite” a Roma, talune addirittura con in braccio i piccoli figli nelle more avuti con i rapitori. “Esse con i capelli sciolti e le vesti stracciate, vinto dalle sventure il femminile timore (“vito malis muliebri pavore”), osarono gettarsi tra il volar dei dardi, scongiurando da una parte i padri, dall’altra i mariti, di non macchiarsi, suoceri e generi, d’empio sangue (“hinc patres, hinc viros orantes, ne se sanguine nefando suoceri generique respergerent” (Livio, I,13).

Tra queste donne, coraggiose e sagge, si adoperò anche Ersilia, l’unica rapita che non era nubile e “attribuita” in isposa al re Romolo.

Alla fine, però, come in una favola a lieto epilogo, prevalse la commozione negli opposti schieramenti dinanzi alla grave prospettiva paventata da quelle giovani, che, in sostanza, si battevano per scongiurare il pericolo di dover perdere, a seconda della parte soccombente, o propri padri e fratelli sabini oppure i propri mariti romani.

Erano quindi in “ballottaggio” i due grandi valori dell’affetto paterni e dell’amore coniugale, da poter comporre unicamente con la pace, a cui le parti, per l’opera delle rapite fanciulle, addivennero, realizzando addirittura la fusione di Romani e Sabini in un solo popolo con sede in Roma e con la nota diarchia, rispettivamente, di Romolo e Tito Tazio , che per alcuni anni regnarono insieme.

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