Sogno

La realtà, di continuo, ti rappresenta un malessere psicologico, alimentato dal ricordo del bello perduto. V’è, ora, il rammarico per non aver forse saputo pienamente ricambiare le cure di chi, meravigliosamente, aveva profuso le sue durante una lunga e felice vita trascorsa sempre insieme, ma poi spezzata ingiustamente dell’imprevisto avverso destino di un’immeritata morte.

Sì, il ricordo ti può consolare, però ti tormenta, perché vorresti riavere; ma sai che è impossibile.

Le sue cose non sono state lasciate, perché continuano a parlarti di Lei, in tutti i momenti che ti restano da vivere, pochi e in solitudine. Puoi solo disperarti; e ciò non ti allevia.

Dicono che il passare del tempo fa guarire, fa dimenticare somministrando il farmaco dell’oblio (“tempus omnia solvit”); ma non si può credere. E’ solo vero che è di grande aiuto e di conforto l’affetto dei propri familiari rimasti; e questa è l’unica fortuna.

V’è tuttavia una non sperata risorsa: il sogno che a volte, in modo imprevisto, ti regala immagini, fatti, situazioni, magari d’altri tempi o di differenti luoghi, anche soltanto inventati, dormendo; nei quali però, sia pure per qualche istante, puoi rivedere e ritrovare ciò che hai perduto. E’ un’apparente realtà che il sogno ti restituisce e che credi ritornata, come se fosse vera, per farti felice.

Ma, poco dopo, un immancabile, sgarbato risveglio tutto cancella e l’illusione fa presto a svanire. Ripenserai più volte a quel sogno, che ha persino liberato la realtà dai suoi immancabili aspetti spiacevoli, trasformandola in meraviglia; e che spererai (ma invano) possa ripetersi, per così donarti ancora una gradita illusione. Purtroppo anche i sogni, specialmente quelli “belli”, hanno il destino di finire, pur non essendo proibiti.

E con questo momento dell’animo non poteva mancare all’appuntamento la Poesia.

Il Carducci, tra le battaglie “sempre sonanti” nell’Iliade di Omero, in riva del fiume Scamandro (dove combattono Greci e Troiani), vinto dal sonno e per la calura estiva nella sua stanza di Bologna, è portato dal sogno in Maremma, luogo felice della sua fanciullezza (“il cor mi fuggì sul Tirreno”); e, con commozione, si ritrova tra i suoi “cari selvaggi colli, che il giovane april rifioria”.

Ivi è il tripudio della Natura tutta e la melodia della primavera, nella voglia dell’Ascensione, mentre nel mare quattro candide vele vanno cullandosi lente nel sole, che tutto abbraccia. Ed ecco che lungo un ruscello appare sua madre “florida ancor negli anni”, che conduce per mano un fanciullo dai riccioli d’oro, il giovane fratello di lui, Dante, entrambi già morti. Il poeta li osserva con quell’incertezza inconsapevole di chi nel sogno rivede persone scomparse e non sa dire se esse siano ancora vive o se, invece, riappaiano per poco, soltanto per consolarlo del suo dolore, venendo da un luogo lontano, dove esse rivivono gli anni migliori, assieme ad altre anime care (“pensoso e dubitoso s’ancor ei spirassero l’aure/o ritornassero pii del dolor mio da una plaga/ove tra note forme rivivono gli anni felici”). Ma poi quel sogno, quanto più era pieno di fascino, tanto più rapidamente è finito col risveglio, rivelandosi essere stato soltanto un “sogno d’estate”.

Torna così, la realtà, per fortuna bella anch’essa, della vita del poeta in città con intorno le sue due figlie, Lauretta, che, ancor troppo giovane canta spensierata, e Bice, ormai prossima alle nozze, che invece, assorta ormai in nuovi pensieri, sta curando “cheta” il lavoro al telaio (“Passar le care immagini, disparvero lievi co ‘l sonno./Lauretta empieva intanto di gioia canora le stanze,/Bice china al telaio seguia cheta l’opra de l’ago”.)

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