Turbamento dell’animo
Certamente il mio “latinorum” non vale quasi nulla, ma tuttavia mi può un po’ confortare.
Potrei, quindi , dire : Dum memoria valet, tot mihi cara servantur; et quamvis praeterita, etiam vivere possunt. Cioè, finché ha vigore il ricordare, tante mie care cose si conservano; e, benché passate, possono rivivere. Infatti, ricordare è un po’ come nuovamente vivere, ritrovando ancora più gradito nel pensiero ciò che non è più nella realtà. E già questo può di certo lenire il probabile rammarico per quanto si è ormai perduto col decorso del tempo.
Ma ho anche considerato che siffatta convinzione serve almeno ad illudere, poiché quel che si possedeva sembrava dovesse durare per sempre ed invece vien meno inaspettatamente; e ciò è vero non solo per le “cose” (pur sempre recuperabili o sostituibili), ma, purtroppo, anche per le “persone care”; la cui scomparsa non consente rimedio, ma provoca soltanto un vuoto definibile disperazione.
Ed ho altresì scoperto che i loro oggetti, pur destinati ad essere, prima o poi, impietosamente eliminati per cedere posto a nuove vite, sono solo apparentemente muti e privi di resistenza, mentre, a guardarli meglio, appare che parlino di chi li ha per tanto tempo posseduti come per ricordarti di colei o colui che ormai è (forse) altrove e tuttavia ha affidato, a quelle sue povere cose personali, messaggi che esse ora ti ripetono di continuo al solo guardarle, senza tuttavia esser sempre intese.
Invero, per altra via, la sofferenza dell’animo proprio potrebbe esser cagionata dall’avanzare dell’età, che già di per se non è gradito (“Senectus ipsa morbus”) ma è tuttavia da saggiamente accettare dicendo “a poco a poco le energie mi lasciano; lo avverto di giorno in giorno e me ne rammarico; tuttavia non voglio arrendermi: è così, infatti, che mi ritrovo vivo ! (o, se mi è consentito, paulatim me vires deficiunt, in dies sentio atque exerucior, Pugnae tamen desistere nolo : ita vivere, enim, videor).
Pertanto potresti anche gioire se la vita, passandoti accanto, ti regali un giorno in più, senza tuttavia rammaricarti troppo perché quello sia anche un giorno in meno.
Ed è così che, all’estremo limite, se non si rimedia con la dimenticanza e l’oblio, v’è sempre quell’ inconfessato timore della fine (“horrere mortem”).
E possiamo anche dire che a non temerla siano soltanto il saggio, il coraggioso e l’incosciente, mentre il comune essere umano non sa né affrontarla né accettarla, sentendone orrore, ma avvertendo, in sostanza, un sentimento proprio della vita stessa, cioè l’istintiva esigenza di difesa e conservazione (inutili) contro quell’evento; del quale ognuno è consapevole, sa della sua inevitabilità ed a scopo meramente scaramantico (altro non potendo fare), nell’esprimersi finge spesso di riderne, quale unico esorcismo contro la sua naturale paura. Al riguardo, quindi, potremmo anche dire : Vir sapiens, aut audax vel temerarius mortem non timere dicitur. Homo simplex, contra, illam horret, neque fortis esse potest. Hic horror, enim, ad vitam pertinet, et in tale fatum praesidium est. Id, ante exitum, omnes sciunt atque accipiunt, etiam mortem ridentes.
Ma è ora tempo di cessare con questo “latino” forse un po’ maccheronico” e far ricorso a quello autentico ed imperituro lasciatoci, tra gli altri, dal poeta Catullo; il quale già duemila anni orsono affermò che i giorni, allietati dalla luce del sole, possono tramontare ma poi ritornare. Quando, invece, si spegne per una sola volta la breve luce della nostra vita, ci tocca dormire per una notte senza fine (“Soles occidere ed redire possunt/Nobis cum semel occidit brevis lux,/Nox est perpetua una dormienda”).
Ma lui si espresse così per un inno alla vita, onde esortare la sua donna a vivere ed amare e con un’infinita quantità di baci : “Vivamus, mea Lesbia, atque amemus…..”Da mi basia mille, deinde centum, Deinde mille altera, deinde secunda centum, deinde usque altera mille, deinde centum”.
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