Ci vuole molto coraggio
(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Carmine Capozzi.
– di Carmine Capozzi –
“Avevo la sensazione di avere dentro di me una figura estranea. Sempre più spesso sentivo un mostro premere dentro il petto, salire alla gola. Mi sembrava quasi di vederlo. E lo psichiatra me lo fece vedere: prese un’immagine che si trova anche su internet e mi disse: è questo? Io risposi di sì”. Era schizofrenia, e così cominciò il percorso terapeutico di Cesare Cremonini, l’ospite sanremese di ieri.
“Mi sono sentita dire di tutto, che sono pazza, ansiosa, frigida, bugiarda, che ho paura del sesso, che dovrei masturbarmi di più”, racconta invece in un suo post Giorgia Soleri, la fidanzata a cui Damiano dei Maneskin, altro superospite di queste serate sanremesi, ha dedicato la sua performance sul palco dell’Ariston. “La parte peggiore è l’estrema solitudine in cui vieni buttata, giudicata da chi hai intorno e incompresa da chi dovrebbe trovare una diagnosi. Impari a considerare quel dolore come parte di te, è la tua quotidianità”. Giorgia Sileri soffre di vulvodinia, una patologia che colpisce l’organo genitale femminile ed è dovuta alla crescita disordinata di piccole terminazioni nervose a livello vulvare. Colpisce circa il 12-15% delle donne e può compromettere seriamente la qualità della vita. Lo stesso Damiano l’ha in più di una occasione accompagnata a convegni a cui i due ragazzi hanno partecipato mettendoci la faccia. Queste sono le belle storie da cercare tra le righe del festival: storie di vera inclusione, di rinascita, di normalità, senza la smania del politicamente corretto a tutti i costi, senza i soliti discorsi buonisti scontati come i panettoni negli ipermercati a fine gennaio. Così un palinsesto che nelle intenzioni vuole essere inclusivo diventa il salone dello stereotipo: una presentatrice di colore qui, un mazzo di fiori agli uomini lì, un transgender di là, una donna su, un disabile giù, messi lì non per quello che sono o che possono dare, ma per quello che rappresentano. Non funziona, non arriva alla gente, è artificioso e artificiale. La vera inclusione parte dalla demolizione delle categorie, dall’esaltazione degli individui come semplici persone, non da un malcelato tentativo studiato a tavolino di rappresentare tutte le “minoranze”. Così facendo l’effetto circo Barnum è dietro l’angolo, appena dietro le lacrime facili e gli sguardi pietosi del pubblico. Una platea così grande è una opportunità per raccontare le diversità, ma per coglierla appieno servono testimonianze meno costruite, e soprattutto non la volontà di propinare una trita verità unica modalità cappotto cammello, da abbinare su tutto. Per rimanere in tema musicale “Ci vuole molto coraggio ad avere coraggio”, cantavano gli Ex-Otago. Ed è così, perché un mezzo coraggio non è altro che una paura a metà.
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