La mia pianta è nuda
Poesia scelta: La mia pianta è nuda
Poeta: Maria Gabriella Cianciulli
la mano trascina le foglie d’acero
la mia pianta è nuda
distribuendo cocci di tetto senza nome
alle marmotte che ne faranno giacigli
Dicono
le abitudini da sotterrare
di parabole contraddette urla il mare
così parlò il ruscello all’aquila
in una tasca di primavera
qui si infiammano solo bocche
di rododendro e la sposa pensò all’abito
negli occhi di brace e di menta
– A cura di Emanuela Sica –
È negli occhi di una donna, da cui risale la visuale, intensa, articolata, sinuosa di un tratteggio pittorico emozionale che sviluppa perfettamente la concretezza di una mano, delicata e, in alcuni versi, anche vigorosa, tale da smuovere, spostare, trascinare, le foglie di un acero, completamente denudato della sua bellezza originale. Una limpida metafora della vita che, man mano, nel percorso voluttuoso del tempo, si spoglia e perde le sue bellezze, muta la felicità in distruzione, rompe le dimensioni che sembravano indistruttibili e si incammina verso l’oblio distribuendo cocci di tetto, che non hanno nome, forse perché oramai lasciati alla culla della memoria, del passato, utili però a fare da giaciglio al riposo delle marmotte, considerate simbolo di luce per due fondamentali ragioni. Il primo è che queste trascorrono molto tempo in letargo e, il processo che permette loro di sopravvivere, ha del “miracoloso”. Il perché lo si ritrova nella discesa repentina della temperatura corporea, da 35 gradi con 130 battiti al minuto scende a quasi 5 gradi con 15 battiti al minuto e, nonostante ciò, l’organismo riesce a mantenersi in vita per poi, dopo mesi di letargia, uscire al caldo e alla luce dei raggi solari, rappresentando la c.d. luce in fondo al tunnel. In aggiunta a questo si richiama la “Candelora” del 2 febbraio di ogni anno (anche detta giorno della marmotta). Secondo una leggenda se in questa data l’animale, uscendo dalla sua tana, riesce a vedere la sua ombra e spaventandosi torna a rifugiarsi allora seguiranno altre sei settimane d’inverno; in caso contrario, se il tempo è nuvoloso, non vedendo l’ombra, significherà che la primavera sta per arrivare.
Per questo il distacco dal sotterraneo freddo e oscuro giaciglio per generare l’emersione al tepore luminoso della vita è l’immagine caratterizzante e identificativa del risveglio della vita, comunque e nonostante gli inciampi e i drammi del percorso. Nel prosieguo della poesia l’innesto della radice d’appartenenza, nella terra, si sviluppa in molteplici singulti, nelle profondità dell’esistenza e, come una parabola di estemporanea caparbietà, fuoriesce l’aspirazione a muoversi, dell’anima, dal bosco sino a tuffarsi nel mare, prima passando per le frescure del ruscello. Qui vi è una vera e propria metamorfosi, simbolo di sganciamento del legame di torba e rinvigorito slancio verso un’aria di libertà assoluta. Quella marmotta, perde la pelliccia, si allunga nelle zampe anteriori sino a diventare ali, potenti, ampie, e diventa l’aquila che, nella traccia deliziosa della primavera, si muove a nuova vita così come fanno le piante, li animali, le cose, sfuggendo all’immobilità dell’inverno, alla cristallizzazione delle cose perdute. Così si infiamma, della bella stagione, anche il cuore della sposa, in una direzione di assoluto entusiasmo e fervore verso il cielo, come il volo che compie il rapace, che ha nell’iride brace, passione, calda emozione ma altresì istinto d’appartenenza, quel profumo di menta che sa di nido, casa, accoglienza. L’aquila si muove ma torna al nido, per assolvere al dovere naturale e istintivo di madre. La donna torna nelle mura di casa, non per assolvere “obblighi” ma per tenere strette le lanterne emozionali delle vite messe al mondo per ripararle dal vento arido dell’ignoto, qui il sentimento si innalza sino a diventare fede esistenziale. Anche in questa poesia l’esclusione della maiuscola, come lo è stato per altre liriche, va evidenziato perché rappresenta non soltanto uno stile ma è elemento cardine da cui germoglia la premessa, l’afflato vitale e naturalistico che corrobora ogni singola parola perché si sente il richiamo della madre terra, la nenia che ci accompagna nella dimensione del sonno e del risveglio, quella voce tremula eppure melodiosa che ci parla lingue sempre diverse e sempre affascinanti. Quest’assenza ortografica è maggiorazione empatica di quello che ha nel bagaglio emotivo chi scrive, che ispira la poesia carica, comunque, di dolore ma anche di una speranza, quasi una saetta nel cielo terso, tela meravigliosa di rondini che tornano nelle scie danzanti del polline. Qualcosa che si idealizza e si desidera divenga abbraccio di bellezza, un supporto ai domani che ancora avranno da venire e lieve si snoda la cicatrice nel cuore che soffre eppure si sente “terribilmente” ricco di quella sofferenza. La scelta dell’acero, poi, non credo sia una casualità. Questa pianta è il simbolo dell’amicizia, della lealtà e generosità. Anticamente si pensava fosse uno degli alberi del Bosco Sacro, il bosco che collega il cielo alla terra, per la chioma caratteristica che si espande in ogni direzione e per i rami che si biforcano diverse volte. Anche la forma delle foglie (le punte, di norma sono 5, ma capita anche di averne 3 o, addirittura, 7) rappresenta apertura verso l’esterno, verso il mondo e, quindi, verso la conoscenza.
Nelle varie culture, dalla cinese alla celtica sino alla giapponese l’acero è visto come simbolo di nobiltà e dignità, indipendenza di pensiero, fino ad arrivare agli amanti e al tempo che passa (l’ineluttabilità del cambiamento e del rinnovamento). Anche per tale ragione, nei giardini zen, le foglie non vanno mai raccolte fino a che anche l’ultima non sia caduta perché il ciclo della vita e delle stagioni è sacro e non va, in alcun modo, interrotto. Tra tutti gli alberi, gli aceri sono quelli che mostrano il modo più evidente l’influenza del pianeta Giove perché prendono possesso dello spazio circostante, espandendosi in tutte le direzioni. I rami più giovani possono biforcarsi numerose volte, le inflorescenze sono particolarmente protese verso le aree più esterne della chioma (anche se sono orientate verso l’interno), le foglie sono ampie e grandi, tendono a puntare verso i punti cardinali, addirittura i semi sono “nudi”, ossia non chiusi in un duro guscio ma hanno le ali tant’è che, quando fluttuano nell’aria, girando su se stessi, possono raggiungere qualsiasi posto seguendo le direzioni più disparate. Anche nella sua forma esterna, l’acero rivela il senso più autentico dell’apertura ossia imparare a ricevere dall’universo i messaggi che questo ci invia e, per questo, è l’archetipo dell’antenna che recepisce gli impulsi provenienti dalle sfere più elevate. Eppure se l’allusione al rododendro e alla sua velenosa essenza sembra quasi una sconfitta sotto i colpi di un destino severo, la poetessa non si inginocchia ma guarda al presente, dritta come l’albero e attraverso questo, armonizzando i pensieri, mettendo ordine alle emozioni, pur lasciate libere di fluire ma sempre accolte e ricondotte ad un confine, un nido, una casa, una sposa che domani sarà una madre.
Maria Gabriella Cianciulli nasce e vive a Montella. Con la prima silloge “Echi di maggio” (Delta 3 Edizioni) pubblicata nel 2015 inizia il suo percorso poetico a cui seguirà “Di Terra e Di Donna” per i tipi di “Controluna” a cura di Giuseppe Cerbino.
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