Per Giuliano Minichiello

(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Mirella Napodano.

– di Mirella Napodano –

Siamo riuniti nella Sala Ripa del Carcere Borbonico di Avellino per uno dei tanti laboratori di Filosofia Civile che organizzo in nome e per conto dell’Associazione AMICA SOFIA, da anni dedita alla ricerca e alla diffusione delle pratiche di filosofia dialogica nella scuola e nella società. In sala hanno già preso posto molti studenti dei licei cittadini e il loro vociare si mescola alle conversazioni intavolate da persone adulte, entrate per curiosità o per amicizia nei miei confronti e desiderose di assistere al laboratorio dialogico. Siamo in attesa dell’arrivo degli studenti di una quinta classe del Liceo ‘De Caprariis’ di Atripalda, che si spostano in autobus dalla cittadina di residenza o da altri paesi del circondario. Dalle finestre si intravede il pallido sole di un pomeriggio di primavera. Viene in mente Pascoli: ’’c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole…’

Io e Giuliano siamo seduti vicini, nel giro delle poltrone blu disposte in cerchio perché tutti i partecipanti al dialogo possano guardarsi negli occhi, scambiandosi questo implicito segno di riconoscimento non verbale che è premessa di accoglienza reciproca ed ascolto attivo. Per ingannare il tempo racconto a Giuliano che sono nata proprio nella strada che costeggia il carcere, in Via Dalmazia, al primo piano della palazzina dove ora si trova un accorsato ristorante, e che la prima cosa che devo aver visto in vita mia è proprio questo complesso monumentale borbonico di forma esagonale, costruito con modalità panottiche perché da ognuna delle torrette si potesse controllare sia l’ampio cortile che l’esterno del fabbricato, oltre il fossato e l’alto muro di cinta. Ricordo distintamente che all’epoca della mia infanzia il carcere ospitava ancora molti detenuti che si sporgevano durante il giorno dalle sbarre per attirare l’attenzione dei passanti.

Conoscevo Giuliano da quando, bambina, trascorrevo molto tempo dell’estate a Montemiletto, sua cittadina natale, e ricordo di averlo incontrato spesso – lui già quasi giovanotto, schivo e signorile com’era per natura – nelle frequenti visite a casa di comuni parenti. Poi la vita ci ha portato in direzioni diverse ma curiosamente parallele, ivi compresa la contemporanea esperienza della dirigenza scolastica, per lui brevissima: fu nominato preside di un liceo di Bologna, ma si dimise presto dall’incarico per dedicarsi alla docenza universitaria che gli era molto più congeniale. Per me invece la dirigenza scolastica è stata un percorso di durata venticinquennale, snodato dalla Toscana all’Irpinia attraverso esperienze variegate ma sempre molto professionalizzanti, tra cui una parentesi di lavoro di otto anni prestato presso l’Università di Salerno come Supervisore del Tirocinio Didattico. E fu in quell’occasione che ci ritrovammo a lavorare nella stessa Facoltà, sia negli ambiti di ricerca psico-pedagogica e filosofica che nel rapporto con gli studenti e nelle sedute degli Organi Collegiali dell’ateneo. Di quel periodo ricordo la fine ironia – spesso mista ad autoironia – che ispirava i suoi commenti relativi ad eventi e circostanze su cui frequentemente ci confrontavamo.

Ma eccoli i ragazzi: entrano chiacchierando tra loro a voce alta, poi si accorgono di noi e abbassano garbatamente i toni, sistemandosi nelle poltrone in attesa dell’inizio del laboratorio. Ci guardiamo e mi sembrano talmente belli nella loro gioventù allegra e scanzonata, ma pur sempre rispettosa e partecipe. Prendo il microfono per salutarli e presentare il professore Minichiello, che risponde con un sorriso sornione a quel loro muto disporsi all’ascolto. Il brano che abbiamo scelto oggi per la nostra riflessione di Filosofia Civile è di Aristotele, tratto dal Protreptico, o Esortazione alla Filosofia:

“Chi pensa sia necessario filosofare deve filosofare e chi pensa non si debba filosofare deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque, si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l’addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere o vaniloqui. La felicità della vita non consiste nel possesso di grandi ricchezze, quanto piuttosto nel trovarsi in una buona condizione dell’anima. La conoscenza e il pensiero filosofico costituiscono il compito proprio dell’anima. Questa è la cosa più desiderabile per noi.”

L’enfasi categorica di questa affermazione di Aristotele, dai toni un po’ insoliti, diverte gli studenti quasi come uno scioglilingua. L’atmosfera è quella giusta per soffermarsi sul ruolo della riflessione filosofica nella vita, non senza una buona dose di ironia socratica applicata all’autobiografia. Un vero e proprio invito a nozze per Giuliano, che ha dedicato al pensiero autobiografico molte ricerche pubblicate in vari testi della sua vastissima produzione, tra cui Autobiografia e Pedagogia. Tra le poche regole che abbiamo deciso di adottare per la conduzione dei laboratori c’è quella della brevità degli interventi, perché non è giusto monopolizzare l’attenzione sul protagonismo di pochi partecipanti, ma piuttosto occorre lasciare spazio di parola a tutti. Ma Giuliano ha il potere di catalizzare l’attenzione con il suo parlare pacato, avvincente, chiaro fino all’evidenza e quando prende la parola nella sala si produce istantaneamente un silenzio assorto: quasi una muta richiesta di continuare quel monologo che in realtà è già un dialogo perché intriso di implicite domande.

Ma ad un tratto, ecco addirittura un colpo di genio: Giuliano confida ai ragazzi di amare molto il cinema ed in particolare di aver apprezzato molti anni prima un grande film che forse loro non hanno visto per via dell’età: L’attimo fuggente, con l’indimenticabile interpretazione di Robin Williams nei panni di John Keating, il professore di liceo che un giorno salì in piedi sulla cattedra e invitò gli studenti a fare altrettanto sui loro banchi per avere finalmente un punto di vista diverso da quello abituale. Niente altro che questo ci induce a fare la filosofia: uscire dagli schemi anche a costo di produrre spaesamento, cambiare ottica, adottare una visione multiprospettica, inclusiva, accogliente verso la diversità che da problema si trasforma in opportunità di sviluppo e interazione reciproca. Fu un’indimenticabile, autentica lezione di vita, scevra da qualunque retorica e tanto meno da ipocrisie paternalistiche, cose che proprio non appartenevano a Giuliano.

Adesso mi piace pensare che lui abbia raggiunto la posizione più ampia possibile, una prospettiva da cui si vede il mondo (al dire di Dante) come quell’aiuola che ci fa tanto feroci (Paradiso XII 151).

Addio, Giuliano. Chissà come ci vedi piccoli da lassù.

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