Cadono a stento
Poesia scelta: Cadono a stento
Poeta: Mattia Cattaneo
cadono a stento
le mani,
nei riflessi di brace
di sere soffiate,
strade
che sembrano sfinite
a oltranza curano i passi
spalanco porte
dalla casa materna
per appoggiarvi la fronte:
tu vedi dal tramonto
che dissangua.
A cura di Emanuela Sica
La caduta, nella fallace consistenza di un corpo o di una cosa che s’abbatte e rovina in una posizione che non gli è propria, apre la dimensione del poeta nel solco del dolore e delle mani che, una volta padrone di “qualcosa”, vengono improvvisamente derubate dal destinale tempo dell’umanità. Eppure, prima ancora di questa, colpisce l’utilizzo della lettera minuscola. Tale incipit, privo dell’ordinale regola grammaticale, appare come il sintomo, già nella genesi, di una mancanza che, a prescindere dalla conseguente “visione” poetica, porta a prefigurare un cammino nel “core” [da ‹kòo› s. ingl. + plur. ‹kòo∫›] di una grave perdita [nel linguaggio scientifico e tecnico “core” indica la parte più interna o, talora, più importante di una struttura, spesso indicata in con nòcciolo o nucleo [ad esempio il “core” di un atomo è l’insieme degli strati elettronici più interni, quindi più vicini al nucleo atomico].
In effetti quello che qui è “manchevole” o “assente” è, non solo la lettera maiuscola ma una figura corporea e intimistica insieme, di materia e spirito, autenticamente “personificata”, da cui tutto parte e a cui tutto giunge. La riemersione della storia poetica di ciascuno è sempre un viaggio da e verso ma in questo caso quel “da” è trasparente o assolutamente non visibile a occhio umano eppure percepito come prevalente nell’animo dell’autore. La crasi dell’esistenza, della sofferenza che s’annida nel riflesso ardente della brace, che ben potrebbe identificare la fine di una vita, la legna che arde e si consuma, crea la visione dei giorni che si spengono nelle sere soffiate (probabilmente il soffio è alito vitale) e nelle strade che appaiono sfinite e quindi battute da passi senza sosta, in un’oltranza che ripiega la speranza in due parti, una destinata a soccombere, a diventare cosa morta.
La lunga scia del tormento, del “quello che poteva essere e più non è”, si dipana evidente. L’inesistenza coniugata presente, di chi si è amato tanto, è la parte più viscerale delle umane vite. La casa qui è “genitrice”, pareti, abbracci, sentimento, consistenza di passato, di emozioni, ed è tutto quello che mai più avranno dimensione materiale, tocco o tatto che sia, ma divagheranno sempre nei pensieri, nelle reminiscenze e nei ricordi. Lo spigolo laminare che taglia in due il lettore è tutto in quella fronte che appoggiata alla porta, all’ingresso della sua “vitalità” di fanciullo, resta, dolente, a interrogarsi sul perché il “sole” sia tramontato così presto. Una discesa della luce nelle ombre notturne, attraverso una ferita che dissangua e svuota ogni pensiero soave, che affonda nella carne e crea nuove tracce di interrogativi, il più delle volte senza risposte. E’ lo stesso poeta a definire questa lirica: “Quasi un sunto dell’intera raccolta “Partiture di pelle”. Ci sono segni per me molto importanti quali le mani, i passi e poi le porte della casa materna, dove tornare dopo il lutto che mi ha colpito.” Eppure, nel momento in cui rielabora il suo lutto e la mancanza appare utile “masticare il dolore per renderlo più leggero (…) cercare la risalita attraverso la speranza.” Questo perché la caduta, come diceva Boris Pasternak, riesce a rivelare l’essenza e la bellezza dell’esistenza: “Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti, non hanno inciampato. La loro è una virtù spenta, di poco valore. A loro non si è svelata la bellezza della vita.”
Sicuramente in questa lirica il poeta si denuda con movenze quasi salvifiche, del dolore, lo lascia poggiato in una parte per prenderlo e riannodarlo ai suoi attimi tutte le volte che serva, questo perché mai riusciremo a distruggere quello che ci distrugge specialmente se (questo) viene ad essere accompagnato dalla seducente nostalgia che tutto rende bello, luminoso, appagante, anche quando è nella scia e nella forma del sangue che, fuoriuscendo da una ferita aperta, comune continua a scorrere nelle nostre vene. Il punto finale poi, seguendo le punteggiature presenti nel testo, gli spazi lasciati come tratti di momenti indimenticabili e taciuti alla folla, da appartenere solo al bagaglio intimo di chi scrive, segna, con decisione i tratti dell’ellissi sentimentale, di quel soggetto assoluto e mancante (ma sottinteso profondamente al linguaggio poetico) che ha dato “origine” a chi scrive e che è tornato a quella “origine” necessaria e obbligata, che tocca ad ognuno di noi, nella terra della luce e dell’inconsapevole vita eterna: la madre.
Mattia Cattaneo, laureato in Scienze della comunicazione. Lavora come assistente educatore. Uno dei fondatori dell’Associazione artistico-teatrale “Architetti delle Parole”. Ha pubblicato poesie e due romanzi “E le stelle brillano ancora” e “Dove sento il cuore”. Il suo ultimo suo lavoro è la raccolta poetica “Partiture di pelle” edita da Architetti delle Parole.
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