Come fiocchi di neve
È un’assoluta evidenza scientifica affermare che – da che mondo è mondo – non sono mai caduti sulla terra due fiocchi di neve della stessa forma. Altrettanto può dirsi senza tema di smentite circa l’assoluta unicità (e quindi diversità) di ogni essere umano. Neppure i gemelli omozigoti risultano perfettamente uguali, malgrado si siano sviluppati – come da definizione – da uno stesso zigote e quindi appaiano portatori di un identico patrimonio genetico. Anche per loro, come per gli altri uomini, saranno gli avvenimenti personali – la biografia esistenziale – ad incaricarsi di renderli irriducibilmente diversi. L’unicità di ciascun uomo, intesa come assoluta soggettività, è dalla più remota antichità uno dei pilastri del pensiero ebraico, come si evince da questa inequivocabile glossa di Martin Buber:
Si comprende allora come ogni uomo che nasce rappresenti qualcosa di nuovo che non è mai esistito prima, qualcosa di unico e originale. Ognuno in Israele ha l’obbligo di riconoscere e considerare che egli è unico al mondo nel suo genere e che al mondo non è mai esistito nessun uomo identico a lui; se infatti fosse già esistito al mondo un uomo identico a lui, egli non avrebbe avuto motivo di venire al mondo. Ogni singolo uomo è una creatura nuova ed è chiamato nel mondo a sviluppare e dar corpo a questa particolarità. Il primo compito in assoluto di ogni uomo è quello di riuscire a realizzare queste sue possibilità uniche e irripetibili e non quello di ripetere ciò che un altro – fosse anche il più grande di tutti – ha già realizzato. Questa idea è stata espressa da rabbi Sussja che, poco prima della sua morte, disse: “Nel mondo futuro non mi si chiederà: Perché non sei stato Mosè?” Mi si chiederà invece: “Perché non sei stato Sussja?”. L’imperativo categorico di ogni uomo è quindi quello di rivelarsi il più possibile al mondo per quello che è, con le proprie caratteristiche identitarie, attraverso un processo (niente affatto scontato) di introspezione, auto-riconoscimento ed epifania dell’Io realizzato per tutto l’arco della vita.
I testi chassidici esprimono questa stessa idea formulandola con una metafora estremamente originale: ogni uomo è una lettera o parte di una lettera. Il libro, nella sua totalità, è scritto solo nel momento in cui è completo di tutte le sue lettere. Perciò, ogni uomo ha l’obbligo di scrivere la sua lettera, di scriversi – ossia di crearsi – offrendo alla comunità il proprio significato, semplicemente perché nessun altro può farlo al suo posto. A ben guardare, in questa teoria semplice ma niente affatto ingenua, si ravvisa una formulazione dell’Etica, della Politica e del rapporto con l’alterità che consente di poter ancora parlare di solidarietà e giustizia per il bene dell’umanità. In tal modo, una proposta culturale antica si rivela attualissima ponendosi come cifra della conoscenza e della reciprocità; fondandosi sulla saggezza del dubbio, grazie alla quale ogni uomo si inventa e si trasforma interiormente man mano che ricerca nuovi significati e originali risposte ai suoi interrogativi, nel confronto e nel dialogo con gli altri. Si genera così una lettura aperta che esplora tutte le possibilità interpretative in un gioco di decostruzione e ricostruzione del senso, per cui sarà utile citare ancora una volta un impareggiabile aforisma chassidico: Un giudizio è una risposta orfana della domanda.
Certamente, una delle condizioni per dar vita ad un dialogo autentico e non autoreferenziale sta nel riconoscersi tutti in qualche modo carenti, limitati: non semplicemente in senso fisico o morale, e neppure nel senso ovvio dell’umana fallibilità, ma come presa d’atto della reale condizione esistenziale degli uomini, che ne costituisce un’implicita ricchezza, determinandone la caratteristica di ‘esseri che desiderano’. Desiderio e comunicazione da questo punto di vista si apparentano, derivando entrambi dalla parzialità. Se la nostra condizione fondamentale è il desiderio, non si tratta però del desiderio sovversivo di rovesciare lo stato delle cose e nemmeno di un progetto di appropriazione di tutto – questo andrebbe nella direzione della volontà di potenza, aborrita dalla filosofia ebraica – ma di un desiderio che si coniuga nel senso dell’amore. Qui si teorizza la positività della carenza: esser deboli, imperfetti, non potenti; riconoscersi come esiliati, viandanti, errare nel doppio senso dell’andare per il mondo e di sbagliare. Quello che spesso è visto come un tratto negativo, un limite dell’umanità, viene pensato in tale ottica come potenziale positivo, non solo e non tanto perché sarebbe l’anticipazione o la precondizione di una futura redenzione messianica, ma semplicemente nel senso di una valorizzazione attuale della condizione umana disarmata e delle sue potenzialità di apertura.
Ed è proprio qui che si trova il fondamento etico della democrazia, in quanto la comune condizione di fragilità si traduce in desiderio di confronto, dialogo, cooperazione emotivo-cognitiva, bisogno di riconoscimento e di relazione.
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