SOLITUDINE: CONDANNA O CONQUISTA?
Poco per volta comincio a vedere chiaro sul più universale difetto della nostra formazione: nessuno impara, nessuno prova, nessuno insegna a sopportare la solitudine. Quanta pertinenza con l’attuale momento storico è rintracciabile in questa esigenza di educazione sentimentale dei ragazzi, così nitidamente espressa da Nietzsche nel testo Per l’educazione! L’urgenza di un’alfabetizzazione emozionale aleggia spesso nelle aule delle nostre scuole; ci sono momenti in cui si ha persino l’impressione di riuscire ad affermarla, a farne scoprire l’esigenza a studenti distratti e professori perennemente impegolati nello svolgimento dei loro programmi. Allora sorgono domande a risposta multipla – nei laboratori di Filosofia dialogica – intorno ai propri e altrui sentimenti; gli interrogativi affiorano a raffica sulle labbra degli studenti, in certe mattine di grazia pedagogica in cui sembra che l’incartapecorito diaframma dell’incomunicabilità fra giovani ed adulti sia destinato ad essere definitivamente infranto. Poi, impercettibilmente, come lanterne cinesi dal cuore infuocato, le buone intenzioni sembrano volar via dalle finestre aperte per il ricambio d’aria nell’aula mentre tu senti che così svaniscono anche i tuoi maldestri e forse pretenziosi (benché volenterosi) tentativi di addestrare i ragazzi ad amarsi e ad amare. La campanella scandisce il cambio d’ora come un’inesorabile cesura tra la riflessione filosofica sulle emozioni e l’allegro, apparentemente ignaro e scanzonato vociare dei ragazzi nei corridoi.
È forse anche per le vistose carenze formative indicate da Nietzsche che la solitudine da pandemia ha colto tutti di sorpresa e ancora adesso morde atrocemente con quella sua prepotente esigenza di distanziamento, imponendoci limiti sociali di ogni sorta. Gli studiosi parlano del recente diffondersi della sindrome di Hikikomori, caratterizzata da ritiro sociale, desiderio di stare in disparte e volontaria reclusione, che avrebbe ormai colpito nel mondo occidentale molti giovani, specie adolescenti, inducendoli ad isolarsi nella loro cameretta virtuale esposta alla rosa dei venti social. Inutile dire che la sindrome è spesso associata a disturbi dell’alimentazione e aumento di peso, che complicano ulteriormente la situazione. Diversa è la percezione della solitudine negli anziani, caratterizzata da angoscia da abbandono e incombente paura della morte. In uno spazio ancor più distante si colloca poi la solitudine degli amori non ricambiati o finiti, che da Saffo in poi hanno amareggiato la vita di miliardi di persone.
Recenti studi sull’impatto della pandemia sulla qualità attuale della vita rilevano che la sensazione oggi più diffusa nella popolazione delle nazioni occidentali è un’inspiegabile assenza di benessere, definita languishing. Più che una forma di vera e propria depressione, gli studiosi accostano questo stato d’animo ad un mood, un persistente umore negativo che svuota e spegne la spinta vitale. La causa di questo sentire così diffuso sembra essere riconducibile all’assenza di gioia ‘sufficiente’ percepita giornalmente dalle persone. Da queste ricerche emerge evidentemente l’esigenza di interrogarsi sul tema della gioia, su come viene percepita soggettivamente, sulle sue manifestazioni, ma soprattutto si tratta di capire perché continua ad accrescersi questo senso di languore, come se la gioia non bastasse mai. Insomma, dobbiamo capire come riabilitarci alla gioia nei gesti della vita ordinaria, nelle attività lavorative, nel tempo libero, realizzando possibilmente un’ordinaria e stabile serenità nelle relazioni, comprese quelle intergenerazionali.
Se queste sono le considerazioni relative alle varie negatività imputabili alla situazione pandemica, non possiamo neppure negare che nel periodo più buio del lockdown molti di noi – me compresa – hanno scoperto che essere soli può offrire insperate possibilità di introspezione, insieme a prolungate opportunità di concentrazione, fino a consentirci di scrivere libri e canzoni sugli argomenti che più ci stavano a cuore ma che non riuscivamo mai a portare alla luce in tempi di pseudo-normalità, nel turbine degli impegni quotidiani. In molte persone è nata proprio così, dal carico emotivo di un imprevisto vissuto di solitudine, una felice vena narrativa mai prima sperimentata, che prosegue ancora oggi come una dolce abitudine orientata all’autorivelazione, come un fiore che nasce dall’humus di una rinnovata consapevolezza di sé. Quasi un’epifania dell’Io (l’espressione è di Hannah Arendt) che finalmente si rivela dopo il dolore e il nascondimento: la voglia di parlare, incontrarsi, abbracciarsi si è trasformata in un venirsi incontro sui sentieri dell’accoglienza per comunicarsi certe emozionanti acquisizioni realizzate in lunghe ore di solitudine, tra lo schermo del PC e una tisana al tiglio. Così la solitudine, questa finita infinità di domande introspettive, questo paradosso di amore-odio per sé stessi, si dischiude come la luce insperata di uno sguardo innamorato, presago di una sconfinata dolcezza.
Sì, perché la solitudine – quando non rappresenta una condanna ma una conquista – è una signora che a volte impara e a volte insegna, paga di un’altalenante reciprocità di scambi vicendevoli tra mente e cuore, tra orgoglio e pregiudizio, tra visioni e passioni. Insomma, quando si evita ad ogni costo l’angustia di trovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare le vertigini della solitudine, quel sublime stato in cui è dato di raccogliere le proprie idee: meditare, riflettere, creare e – in ultima analisi – dare senso e sostanza alla comunicazione. Per contro, se si vive la solitudine come isolamento, si sperimenta l’assenza di significato: quell’insignificanza che può identificarsi con il nichilismo, col negare che esista una verità e, soprattutto, una verità che passi attraverso le ferite. È così che si insinua il pericolo maggiore: la perdita del gusto di vivere, di meravigliarsi, di immaginare nuovi orizzonti esistenziali al nostro esserci qui ed ora. E così si finisce col mettere la propria esistenza su di un piano inclinato, perché senza speranza è logicamente impossibile trovare l’insperato!
Nel lontano 1976 Giorgio Gaber pubblicava l’album Libertà obbligatoria, in cui c’era una traccia dedicata alla solitudine. Nel testo è dato cogliere alcune perle di ironica saggezza, con cui il cantautore esprime con felice sintesi l’estremo paradosso relazionale: La solitudine non è mica una follia. È indispensabile per star bene in compagnia… I soli sono individui strani, con il gusto di sentirsi fuori dagli schemi. Non si sa bene cosa sono, forse ribelli, forse disertori. Nella follia di oggi i soli sono i nuovi pionieri. Son così bravi a crearsi intorno un’aria di mistero, sono gli Humphrey Bogart dell’amore, son gli ambulanti, son gli dei del caso. I soli sono gli eroi del nuovo mondo coraggioso, con quell’aria un po’ da saggi e un po’ da adolescenti. A volte pieni di energia, a volte tristi, fragili e depressi. I soli hanno l’orgoglio di bastare a sé stessi. Ai soli non si addice il quieto vivere sereno. Qualche volta è una scelta, qualche volta un po’ meno. La solitudine non è malinconia. Un uomo solo è sempre in buona compagnia.
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