VISIONE E DIALOGO NELLA DIVINA COMMEDIA – L’ALTERITÀ COME INSIPIENZA?

Le celebrazioni per il settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri volgono ormai inevitabilmente al termine. Questi mesi hanno visto un fiorire in tutto il mondo di saggi, letture collettive, convegni, webinar, spettacoli, riflessioni filosofiche, commenti e pubblicazioni a stampa di gran pregio. E ogni volta che ci è capitato di incappare in una di queste esperienze – tra l’altro piacevolmente evocatrici di reminiscenze liceali – ci è parso di scoprire nel pensiero e nell’opera del sommo poeta nuovi spunti di ricerca, intriganti provocazioni, inaspettati fuochi ad illuminare le nostre meditazioni. Tuttavia ritengo che non si sia parlato ancora abbastanza di un aspetto fondamentale dell’opera dantesca, cioè di quanto essa sia permeata da un approccio filosoficamente dialogico rispetto alla vita, finanche a quella oltremondana. Non si tratta quindi solo di ripercorrere tra le cantiche del poema le numerose conversazioni di Dante pellegrino tra dannati, anime purganti e beati, quanto di comprendere che tutta la visione del mondo e dell’esistenza umana in Dante ha un fondamento essenzialmente dialogico, fino ad indurre il Poeta a dialogare con la storia, col tempo, con il destino stesso di un’umanità disperata o trionfante. Dante si è impegnato in un titanico quanto solitario tentativo di dialogare con l’Oltre, facendosi guidare finché è stato possibile dal suo maestro Virgilio e poi dalla donna più importante della sua vita, colei a cui ha affidato senza riserve finanche la salvezza della propria anima, superando a piè pari le grette lusinghe del maschilismo mai sopito sia in epoche a lui precedenti e che in quelle future. In questo immane sforzo di consapevolezza metafisica, Dante si è inevitabilmente misurato col dramma di ogni esistenza umana, passando attraverso l’esperienza dell’alterità morale e culturale identificata nell’insipienza biblica, con cui lo spinge a misurarsi la sua estrema passione per la verità.

Ma chi è l’insipiente per l’uomo medievale? Nel Salmo XIII, attribuito al re Davide, è possibile reperirne la definizione più categorica: Dixit insipiens in corde suo: «Non est Deus». Cieco nella sua intelligenza, con la quale nega Dio, per l’uomo medievale costui pecca anche nella volontà, ove tutte le affezioni, tutte le inclinazioni sono corrotte e nelle opere, che rivelano l’omissione assoluta di ogni bene. Naturalmente qui il biblico insipiens sta per non credente, ai tempi di Dante più disinvoltamente tradotto come ‘stolto’. Perciò il viaggio nell’al di là narrato dal Poeta è per due terzi un dialogo con i non credenti, o non abbastanza credenti da meritare a suo giudizio di essere ammessi alla beatitudine celeste.

Nella Commedia, attraverso i dialoghi che immagina di intrattenere con chi è diverso da lui sul piano delle convinzioni e delle scelte morali, cioè con chi rappresenta l’alterità culturale rispetto al mondo cattolico medievale di cui è partecipe e mirabile interprete, Dante esprime l’esigenza di un confronto costruttivo con chi non crede o professa un’altra fede e la ricerca di un ‘terreno’ comune su cui trovare le condizioni per stabilire un incontro. Ciò è riscontrabile anche quando tali dialoghi non hanno un esplicito contenuto culturale e assumono una funzione prevalentemente narrativa o descrittiva di una condizione, di uno stato d’animo o di una preoccupazione, soprattutto nei casi in cui il confronto avviene con anime che si sono macchiate di colpe particolarmente gravi, inquadrate come tali in quello che va riconosciuto come un progetto profetico ed escatologico, oltre che poetico e politico.

E tuttavia, attraverso l’accostamento di tali dialoghi e la loro integrazione con altre opere dantesche della maturità dal contenuto più esplicitamente filosofico, si ha l’impressione che essi comunque costituiscano dei ‘rimandi’ utili a fare emergere e a focalizzare l’esigenza dell’autore della Commedia di intrattenere un proficuo confronto culturale con chi è partecipe di una mentalità anche radicalmente diversa. In questo senso l’atteggiamento del Poeta riecheggia le tendenze teologico-razionali attraverso cui nel Medioevo si costruisce un pensiero squisitamente filosofico: il paradigma dialogico che, fondato sulla dialettica, conduce alla quaestio scolastica, caratteristica dell’alta cultura dell’età di Dante, tanto che il suo più insigne rappresentante, Anselmo d’Aosta, è collocato tra gli esponenti del cristianesimo filosofico, cioè tra gli ‘spiriti sapienti’ che dimorano nel IV cielo del Paradiso.

L’esperienza delle quaestiones era in uso nella Scolastica per la durata di intere giornate, in cui gli studenti ponevano a docenti come Anselmo d’Aosta o Tommaso d’Aquino domande radicali sulla dottrina delle sacre Scritture, discutendone con loro accanitamente. Tale pratica sta ad indicare fino a che punto l’atto investigativo, il domandare filosoficamente rilevante, fosse in auge nel Medioevo molto più di quello che oggi possiamo immaginare. Il concetto, se non le modalità, era già quello della comunità di ricerca (community of inquiry) che attualmente adottiamo nei nostri laboratori di filosofia dialogica, sulla scorta di autori come Dewey e Lipman, ma che già don Lorenzo Milani aveva intuito e praticato con successo nei primi anni ’60 del secolo scorso nella Scuola di Barbiana.

Ma, tornando alla Divina Commedia, i dialoghi delle anime con Dante e tra loro sono talmente frequenti (per non dire preponderanti nell’economia dell’opera) che se non se ne fosse approfondita la causa, l’intero racconto del viaggio oltremondano avrebbe rischiato di perdere credibilità.

I commenti sono chiusi.