CATULLO, POETA GIOVANE ANCOR DOPO DUEMILA ANNI

La chiamavano Lesbia, forse in omaggio alla femmina-poetessa Saffo dell’antica Lesbo; e tutti “si accorsero con uno sguardo che non si trattava”… di una Vestale!

Catullo denominò Lesbia la sua donna, velandone il vero nome e soltanto riferendo che era bellissima e candida; che, dall’inizio della loro relazione, aveva un marito e tanti amanti alla fine.

Invero è ormai certo che quella Lesbia si chiamasse in realtà Claudia e poi Clodia, e che fosse la seconda delle tre sorelle del Tribuno P. Clodio Pulcro; che inoltre fu moglie del console del 60 a.C. Q. Cecilio Metello Celere, di cui rimase vedova l’anno dopo.

La sua bellezza è ulteriormente evidenziata da quel giovane Catullo, forse di lei sinceramente “innamorato”, anche con raffronti al negativo, allorché egli, in eterna polemica col suo nemico Mamurra, praefectus fabrum di Cesare, oltre che con epigrammi, enumerò (v. carme 43) tutti quei pregi femminili che mancavano nella donna di costui (Ameana) per potersi paragonare con Lesbia: naso piccolo, piede aggraziato, occhi neri, dita affusolate, oltre ad alta ed eretta statura, grazia e spirito. Tutte qualità che l’infatuazione dell’amore o della passione fa anche vedere ovviamente potenziate.

Questa Lesbia, che la storia ha poi anche catalogata “scostumata” (ma nel senso letterale di dissociata dal costume), apparteneva effettivamente a quel genere di donne, diciamo, anche coraggiose perché capaci di sfidare il severo costume quiritario tradizionale (mos maiorum), sul prototipo di Sempronia, che Sallustio dice “ben fortunata per nascita e bellezza, dotta, capace di suonare la cetra e danzare meglio di donna onesta ed esperta in arti che sono strumenti di mollezza, dalla quale fu sempre preferito tutto rispetto all’onore ed al pudore, tanto che voleva più spesso lei gli uomini, che esser da loro voluta” (Cat. 25).

Secondo Sallustio (Cat. 24,25) la bella Sempronia, che aveva già al suo attivo molte azioni delittuose compiute con audacia virile, era tra le varie donne strumentalizzate da Catilina per realizzare i suoi disegni sovversivi (63 a.C.).

Lei apparteneva alla nobile famiglia dei Semproni; era moglie di Decio Giunio Bruto, console nel 77 a.C., e madre di quel M. Giunio Bruto, che, insieme a C. Cassio (fieri repubblicani) contribuì, nella nota congiura delle idi di marzo del 44 a.C., ad assassinare (considerandolo un tiranno) il grande Giulio Cesare; del quale sono rimaste famose nei secoli le ultime parole “tu quoque, Bruto, fili mi!” da lui pronunciate scorgendo anche Bruto prima di cadere sotto 23 pugnalate, in Senato, proprio ai piedi della statua di Pompeo, allorché verso Cicerone (sempre anticesariano), che era lì a pochi passi, i congiurati, dopo l’eccidio, levarono i pugnali gridandone il nome.

Ma la più nota e significativa descrizione delle abitudini di Lesbia, sullo sfondo dell’antica dolce vita romana, ci viene fornita da Cicerone, illustre e contemporaneo, che, nella sua orazione forense “pro Caelio” ( con cui egli difese M. Celio Rufo, accusato, nel 56 a.C. di veneficio proprio dalla sua ex amante Clodia per la morte di suo marito Celere), così si esprime (in modo stranamente accanito e un po’ tendenzioso): “Ammettiamo che una donna senza marito abbia aperto la sua casa alle voglie di ognuno e si sia messa a condurre una vita da mondana; che si sia data a frequentare i bagordi di uomini assolutamente estranei a lei, in città, in villa, in mezzo al gran mondo, che frequenta una località come Baia; ammettiamo infine che una donna si faccia giudicare per quella che è non solo per come si muove ed abbiglia, per il genere di persone di cui si circonda, per l’ardore che mette negli sguardi e per la licenziosità dei discorsi, ma anche per quel suo abbracciare e baciare la gente, per il contegno che tiene sulle spiagge, per le gite in barca e per i banchetti che frequenta”…(pro Cael., 49).

Cicerone che altrove appare anche colpito dagli sguardi infuocati di siffatta donna (“hos oculos flagrantes”), sembra tradire così un suo inconfessato e unilaterale condizionamento alle qualità sensali di questa sua avversaria processuale, che ufficialmente aveva il ruolo di denunciante del cliente Celio da lui difeso.

Tutto ciò rende difficile riconoscere come da allora ad oggi possono esser passati migliaia di anni senza che nulla sia davvero mutato; e forse fa dar ragione allo storico Plutarco allorché maligna ipotizzando una segreta inclinazione dell’illustre oratore per l’affascinante vicina di casa sul Palatino (Cic. 37).

Ma, ad esaltare le doti di Lesbia, sopravvenne il più grande lirico latino, V. Valerio Catullo, nato a Verona nell’87 a.C. e morto, a soli 33 anni, nel 54 a.C..

Vissuto quasi sempre a Roma, egli conobbe quella donna che per alcuni anni occupò tutta la sua sensibilità e dalla quale egli riuscì infine a staccarsi compiendo un suo viaggio in Oriente e ritirandosi, al rientro, nella sua villa a Sirmione.

Nella sua breve ma intensa vita, Catullo realizzò pienamente il trinomio di poesia, amicizia ed amore, esprimendo le alterne vicende dei moti del suo animo (“Ti odio e ti amo”) ed esortando Lesbia alla vita e all’amore (“Vivamus, mea Lesbia, atque amemus”), senza tener in alcun conto le proteste dei vecchi tanti austeri, ed a regalar tanti baci (“da mi basia mille, deinde centum, dei mille altera…”) da non poter essere contati; ma, poi, nel mezzo di questi suoi versi, che sembrerebbero soltanto spensierati di un giovane gaudente della Roma bene, appaiono quei tre terribili endecasillabi, capaci di dare un brivido con la constatazione che, mentre i giorni di sole possono tramontare ma poi ritornare (“Soles occidere et redire possunt”), invece a noi esseri umani, tramontata per una volta la breve luce della propria vita, tocca dormire una notte senza fine! (“Nobis cum semel occidit brevis lux/no); e così, in tanta poesia, la gioia di vivere di un’eterna giovinezza e la morte finiscono collegate!!

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