QUELLA SINGER DI NONNA MARIETTA
Correva a sollecitare i timpani quel ronzio, inframezzato da cadenzati rumori come di mitraglietta, eppure non era un’arma da fuoco quella che scoppiettava sagace tra le mura domestiche, nel dare senso al tempo, alle prime luci dell’alba, bensì una macchina a cucire. Ne sentivo l’eco dalla mia stanza quando ancora le persiane non avevano accolto la presenza del sole che poi sarebbe giunto, passando filiforme dalle lineari fessure, a risalire lungo il letto sino a toccarmi il volto, come una carezza leggera di risveglio. Richiamata da quella familiare melodia, e dal vociare della casa che si preparava al nuovo giorno, velocemente mi alzavo e, arrivata in cucina, cristallizzavo il mio corpo davanti alla porta, facendo attenzione a non distrarre, mia nonna, con il mattiniero buongiorno. Avrei atteso la fine del percorso del cucito per salutarla, darle un bacio. Per educazione, quasi senza fiatare, l’osservano mentre, china sulla sua brillante Singer nera e oro, pedalava con regolare tenacia muovendo le mani sulla stoffa e dando la direzione indicata dal punto imbastito e fantasticavo, o forse speravo, che un giorno avrei imparato anche io. Ma non avevo le sua capacità, o forse non mi sono impegnata abbastanza perché quello che so fare oggi è, al massimo mettere un bottone e, per “Averne cucito uno… non si diventa sarti”. Nonna Marietta, invece, creava e riparava, accorciava, allungava, tagliava, insomma cuciva e lo faceva così bene che, da ragazza, confezionava finanche meravigliosi e richiestissimi abiti da sposa. L’antico mestiere lo aveva ereditato da sua madre, nonna Cuncetta, che tutti chiamavano “la maestra”. Da ogni parte del paese, e anche da quelli limitrofi, tantissime donne e giovani ragazze frequentavano la sua scuola di cucito e ricamo. Non c’è mai stato un vestito che mia nonna non abbia riparato, uno strappo che non abbia rammendato, una stoffa che non abbia preso vita e forma grazie al suo talento: “Riparare… è la cosa più difficile da fare ma anche quella più giusta…” mi ripeteva, quasi come un mantra, quando mi chiedeva di infilarle l’ago, perché non riusciva a trovare gli occhiali. Riparare per lei era un atto di coraggio, d’amore. “Tutto nella vita si può riparare, a nonna, sul la morte è na forbice arruzz’nuta ca strazza a filu e po’ è tuttu p’rdutu”. E lei sapeva bene quali erano le cose che non avrebbe potuto mai riparare, perché indissolubilmente legate al trapasso, alla fine della vita: la tragica morte del fratello Giovanni, investito da un camion dell’esercito ad Avellino, e l’innaturale perdita del giovane figlio Vito, venuto a mancare, per una malattia, nel fiore della sua gioventù. “Nun t’ne’ pressa, figlia mia… chiano chiano” diceva alle sue discepole spiegandomi che cucire richiede lentezza, non fretta, pazienza, cura, dedizione e attenzione ma anche immaginazione, una relazione attiva col futuro. Cucire è, altresì, una magia e richiede una grande dose di meticolosità e, soprattutto di arte, finanche quella di dare ascolto al tessuto, a come ci parla mentre lo si tiene tra le mani. Alle vie che verranno create col gessetto e ai profili che verranno tagliati. Cucire è inclusivo, lega, unisce, crea relazioni complesse. Non esclude, non separa, non allontana. E allora, al di qua della vita e non altrove, forse avremmo davvero bisogno di buoni sarti per risollevare le sorti del mondo. Oggi si tende a strappare e buttare via tutto, dai vestiti ai rapporti in generale. Comprare il nuovo a discapito del vecchio e usato è un must comportamentale che, se per alcuni versi sembra giusto e opportuno, per altri fa ricadere la società nel consumismo più esasperato con relativa involuzione della società in ogni campo, il primo quello ambientale. Cucire quindi anche come arte del riciclo perché anche la spazzatura è una grande risorsa che però vive nel posto sbagliato e a cui manca “l’immaginazione di qualcuno perché venga riciclata a beneficio di tutti” (Hansen). Qualcuno affermava che “cucire è tutto” e che “la scienza degli uomini altro non è che cucire. L’astronomia è una cucitrice di ipotesi, la giurisprudenza di paradossi, la medicina di aforismi, la poesia di castelli in aria, la religione di miracoli, la politica di perfidie, la botanica di spinaci e di fichi secchi, la zoologia di grilli e di orsi bianchi. ”Probabilmente avremmo bisogno di bravi sarti (nella più ampia accezione maschile e femminile) che sappiano cucire gli strappi della vita con serietà e capacità. Bravi nella lucida riflessione di ciò che andranno a cucire, attenti e precisi nel modo in cui lo faranno. La metafora della vita è forse rinchiusa in ago, filo e forbice? Provo a dare una risposta facendo degli esempi. Col filo della speranza e muovendo bene l’ago andrebbero ricuciti quei rapporti che, altrimenti, se non riparati a modo, potrebbero consegnare un rigido inverno all’intera l’esistenza. Penso alla diplomazia che cuce la pace dove prima c’era lo strappo della guerra. E ancora, andrebbe ricucita una stoffa preziosa quando si è consapevoli che un’altra, e migliore, non si potrà trovare. Penso ai rapporti d’amore -quello vero- dove il sentimento è così autentico che si deve necessariamente tentare di stringere i punti per non perdersi nel mondo. Del resto ogni amore, se capovolto, come un vestito fatto su misura, mostra dei punti, le cuciture naturali della vita. Quindi se la ragione taglia, come le forbici, il cuore cuce, unisce le cose come farebbe un buon sarto che, in ogni caso, si muove anche col taglio quando la cucitura risulta impossibile e la riparazione sarebbe un papocchio. Mia nonna era solita dire: “Cento volte prendi la misura e una volta sola tagli… perché se sbagli poi non puoi fare più nulla per sistemare le cose”. E chissà se, tra le capacità utili ad un/a politico/a, come un punto a favore nel suo curriculum, ci possa essere un giorno la qualifica di “sarto/a” come elemento dirimente e prevalente per dare una valutazione positiva delle sue capacità più utili al paese. La politica dovrebbe saper creare, prendendo con attenzione le misure, un abito adeguato e per giunta comodo a vestire la società civile. Allo stesso tempo dovrebbe essere capace di ricucire gli strappi che, normalmente, vi si creano. Il filo è la competenza, l’intelligenza. L’ago è la concretezza, fare i punti in maniera che la cucitura regga. È facile tagliare, buttare stoffa e lavoro. Questa è l’arresa davanti ai problemi che, come tutti quelli che non hanno a che fare con la morte, hanno sempre e comunque una soluzione. E allora chi ha ago e filo (e li sa usare) può creare il mondo… per tutto il resto esistono le forbici.
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