PRAGA
Lieve come un bianco cigno
il sole si è assopito sulla Moldava
scintillando le ultime saette di luce
contro l’orizzonte in festa.
Un battello scivola pigramente
sotto l’antico ponte di pietra,
scortato da uno stuolo di anatre selvatiche
dal variopinto soffuso piumaggio.
Alla tenue luce dei lampioni a gas
le statue barocche, come passanti
impietriti dal tempo,
esibiscono agli sguardi curiosi dei turisti
i loro profili dorati dal tramonto estivo,
come per ostentare ancora a lungo
l’ebbrezza della raggiunta eternità.
È troppo dolce stasera la vista
delle torri del castello incantato,
simili a fiori secchi impreziositi dai ricordi,
per dare ascolto al cupo lamento
che dal ghetto ebraico
i martiri ammassati tra le grigie pietre
lanciano da un muro eretto dal pudore
per celare il loro riposo ad occhi indiscreti.
Intanto la brezza della sera accarezza
le facciate liberty dei palazzi
recando, con la soave fragranza dei tigli,
il riso malizioso di innumerevoli puttini
intenti a giocare a rimpiattino
tre le ringhiere di ferro battuto.
Attonita, io fisso gli occhi in quelle pupille di pietra
e sento che in me – sottile come una lama –
di colpo rivive come per incanto
il vigore struggente di questa città
tenebrosa e provocante,
popolata di fantasmi di eroi e manigoldi
astrologi ed artisti, fantocci di cera
e santi di pietra arenaria.
Ma è con te che avrei rincorso tra oscure viuzze
lo spettro di Kafka incalzato da ignote accuse.
Insieme a te avrei voluto ascoltare
gli inebriati poeti al Cabaret Viola
declamare a gran voce i loro versi
intrisi di vapori di birra e fumo di sigari.
Con te, spingere lo sguardo lontano
in mezzo ai campi di grano e girasoli
per dipingere nei colori di agosto
un fondale nuovo per il mio amore di sempre.
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