Appunti di viaggio (Driving across Europe)

In quella lontana estate del 2002, l’idea di andare in macchina da Avellino fino a Trondheim (antica capitale della Norvegia distante 500 km da Oslo, in direzione Capo Nord) era improvvisamente balenata nella mente di mio marito, che aveva dissimulato il suo rinomato senso dell’avventura col pretesto – a me particolarmente gradito – di portare un’imprecisata quantità di prodotti tipici della dieta mediterranea a nostro figlio, dottorando presso quella università norvegese, presumibilmente in crisi di astinenza per l’ormai prolungata carenza di olio extravergine di oliva, pelati casalinghi, Fiano di Avellino, formaggi, salumi campagnoli e quant’altro. Qualche giorno prima avevamo ricevuto una sua cartolina dall’antica cittadina nordica, in cui i colori pastello delle case di legno si riflettevano nelle limpide acque del fiordo, duplicando a specchio la loro immagine in un’irreale immobilità, evocante figure di pescatori in paziente attesa dell’arrivo di pregiati salmoni e merluzzi. La luce radente di un meriggio scandinavo conferiva al paesaggio un fascino particolare cui era veramente difficile sottrarsi.

Fu così che, ammaliati da questa visione onirica, caricammo la macchina fino all’inverosimile di valigie e mercanzie, alla cui sommità troneggiavano una chitarra acustica e un casco da motociclista; salutammo parenti ed amici trepidanti ed increduli e, muniti di una Guida Touring vecchia di vent’anni (cimelio di avventurose escursioni di camperisti d’altri tempi) facemmo rotta verso il Nord in un mattino d’estate, lasciando case e poderi in balia dell’imbronciata, umida stagione irpina. Difficile descrivere un viaggio di 7214 chilometri percorsi in automobile e ventidue ore di crociera tra i fiordi senza rischiare di trascurare particolari interessanti.

L’esordio non fu dei migliori, se si tiene conto del nostro incidente d’auto causato da lavori in corso sull’autostrada tedesca, scarsamente segnalati secondo l’uso teutonico. Il fatto poi che la fuoriuscita della ruota sinistra dal semiasse fosse avvenuta di sabato pomeriggio nel week-end di Ferragosto, lasciandoci in attesa di soccorsi nella Foresta Nera sotto una pioggia battente, ci fece immediatamente balenare il dubbio – presto trasformatosi in amara realtà – che il viaggio avrebbe subito un’imprevista sosta in quel minuscolo villaggio all’uscita dell’autostrada, dove peraltro il mio cellulare, unico mezzo di comunicazione superstite, era andato in panne. La laconica espressione: Kaputt, sfuggita dalle labbra del meccanico mentre constatava l’entità del guasto, ci convinse di quanto fosse fondato il nostro sospetto.

Non fu facile resistere alla frustrazione di dover trascorrere due giorni senza mezzi di locomozione, alloggiati in un piccolo motel che, per quanto dignitoso, era gestito da personale che non capiva una parola d’inglese e per di più aveva il vezzo di scomparire per circa due ore al giorno lasciando fuori i clienti senza alcun preavviso, neppure in tedesco, orale o scritto…

Una riparazione-lampo della vettura ci consentì, la mattina del lunedì, di imbarcarci per Goteborg senza stravolgere del tutto la tabella di marcia, ma proprio in Svezia ci aspettava un altro imprevisto. Giunti che fummo al porto, un solerte ispettore doganale, insospettitosi al veder toccare il suolo svedese da una macchina con targa italiana carica di mercanzie, non potette esimersi – per dovere d’ufficio – dal fermarci per effettuare il controllo antidroga, con tanto di cani poliziotto.

Quella volta però ebbi modo di testare gli esiti formativi del mio recente corso d’inglese nella conversazione che seguì con il gentile agente che ci tenne compagnia – in una saletta appartata – mentre i cani (ahimé) frugavano col naso in ogni anfratto dell’auto. Si parlò in particolare del campionato di calcio italiano (di cui io conoscevo ben poco mentre lui non perdeva una partita) mentre mio marito scalpitava per la fretta e l’imbarazzo di non capire una parola della conversazione in atto fra l’ufficiale e me. Intanto i bagagli venivano scrupolosamente scaricati, osservati, annusati e ricaricati sull’auto dai meticolosi operatori della polizia di frontiera. Questi ultimi cercarono anche cortesemente di rimettere nel bagagliaio più o meno nella stessa posizione valigie e scatoloni, tuttavia adocchiarono una bottiglia di vino d’annata che un agente tentò di barattare con un sorriso ammiccante; ma noi eravamo troppo infuriati per cedere, così gli dissi acidamente che era un regalo per gli amici di mio figlio.

La Norvegia ci gratificò poco dopo con la vista dell’imponente fortezza di Bohus fastning, presidiata dai norvegesi in una storica battaglia in cui perse la vita il principe Olaf (uno dei tanti, visto che è un nome ricorrente nella dinastia tuttora regnante). Visitare Oslo non ci aveva dato grandi emozioni neanche la prima volta, nell’ormai lontano 1981, per cui ci limitammo ad una sosta – per così dire – tecnica, prima di affrontare gli ultimi cinquecento chilometri tra Oslo e Trondheim.

Il computer, debitamente consultato come oracolo postmoderno durante i preparativi per la partenza, ci aveva indicato come percorso più veloce (ci stiamo ancora chiedendo in base a quali criteri) l’itinerario di Elverum, tra posti remoti ed inconsueti. I primi cento chilometri non comportarono grandi emozioni, se non un vago senso di solitudine e straniamento, che andava progressivamente aumentando via via che alla bassa vegetazione si andava sostituendo una pietraia coperta di muschi e licheni a perdita d’occhio. Mentre dal finestrino osservavo il paesaggio, dove ormai non c’era quasi più traccia di vita, mi perseguitava il pensiero di un possibile guasto all’automobile, eventualità neanche tanto peregrina, considerati gli avvenimenti di qualche giorno prima. Ma sarebbe bastato anche molto meno, come avere il serbatoio della benzina vuoto, per trovarsi di nuovo in difficoltà. Un’occhiata furtiva al cruscotto mi tranquillizzò: c’era carburante sufficiente per arrivare alla meta. In quel momento fui molto grata a Gigi per la sua lungimiranza nel fare scorta di gasolio…

Intanto cominciava a far freddo e cadeva un fastidioso nevischio, che ci accompagnò durante tutto l’attraversamento della tundra ed anche dopo, quando sull’altipiano non si vedeva altro, a perdita d’occhio, che chiazze di neve sulla nuda terra. Un mio incauto accenno all’impossibilità di usare il cellulare per mancanza di campo mi valse tutta una disquisizione pseudo-filosofica del consorte sull’ansia da prestazione telefonica (leggi ridondanza del collegamento) indotta ad arte – a suo parere – da questi mezzi di comunicazione puramente consumistici. Riaccesi subito l’autoradio e gli inflissi la tortura di circa due ore di conversazione in norvegese, inframmezzate da canzoni in inglese. Per la serie: quando è necessario, so anche difendermi con i mezzi di cui si dispongo.

Intanto nella foschia di quell’agosto norvegese cominciavano ad intravedersi alcune sparute casette di legno, come quelle che i norvegesi amano raggiungere in avventurose spedizioni attraverso le foreste durante i week-end, ma erano desolatamente vuote da lungo tempo, probabilmente dalla fine della guerra fredda tra Russia e America. In quel periodo, infatti, gli USA avevano in ogni modo favorito gli insediamenti umani nei posti più estremi, finanziando costruzioni e piccole infrastrutture nel nord della Norvegia, pur di evitare la colonizzazione di un territorio tanto vasto quanto impervio da parte della potenza allora rivale.

Nell’ultima parte del viaggio fui totalmente assorbita dalla speranza, sempre frustrata, di veder sbucare qualche renna tra i cespugli o almeno di intravedere tra i sassi qualche pezzo di corna d’alce o di cervo – tipico souvenir nordico da esibire al ritorno – salvo poi a non sapere che farne, perché l’ultima cosa che mi sarebbe passata per la mente era l’idea di metterlo in bella mostra in salotto. Solo il pensiero mi deprimeva.

Intanto eravamo in vista di Trondheim: me ne accorsi dallo squillo familiare del telefonino con cui nostro figlio ci dava appuntamento nella piazza del Duomo, il posto evidentemente più facile per incontrarsi. La prima impressione fu quella di una località rilassante, deve non c’è mai fretta, forse anche perché (come avrei di lì a poco constatato) alle undici di sera il cielo di agosto è ancora chiaro. Le case basse con grandi aiuole fiorite e i molti pedoni non sembravano risentire del traffico automobilistico, ordinato e contenuto in limiti del tutto impensabili per le nostre abitudini. La gente mi sembrava allegra e rilassata, dedita allo shopping tra le vetrine illuminate, sprovviste delle saracinesche e dei vistosi catenacci che usano dalle nostre parti. Sarà che qui nessuno spegne la luce di notte, neppure in casa, per inveterata abitudine… Scoprii così che i nordici vivono immersi più di noi nella luce, naturale o artificiale, contrariamente a quello che avevo pensato fino a quel momento. Altre sorprese mi avrebbe riservato di lì a poco visitare l’interno di una casa, affittata da studenti, dotata di ben tre acquari con pesci tropicali, un televisore con schermo gigante e un’infinità di piccoli elettrodomestici per la cucina: dalla macchina per fare le tagliatelle alla gelatiera. E poi dicono gli italiani…

La parte più bella di Trondheim, a parte il canale dove si specchiano le case dei pescatori (che da vicino è di una bellezza quasi irreale) è la fortezza con il suo bianco bastione e l’immenso, silenzioso parco con vista sulla città vecchia: un insieme di ordinate, coloratissime casette di legno finemente decorate.

Come in tutti i Paesi del nord Europa, quello che colpisce anche qui in Norvegia è l’armonico rapporto che l’uomo istituisce con l’ambiente naturale, eppure si direbbe che la natura sia stata molto più prodiga con noi, per via del clima… Ma il fiordo di Trondheim è l’unico in tutto il Paese a non gelare d’inverno, per i benefici effetti della corrente del Golfo: perciò rappresenta un perfetto habitat per i salmoni, i più pregiati di tutta la Scandinavia.

La visita della città universitaria ci riservò altre sorprese, fin dall’ingresso: facciata in stile gotico primitivo con tanto di guglie, contornata di betulle; padiglioni modernissimi immersi nel verde intenso della collina; dovizia di attrezzature multimediali; un’immensa biblioteca con giardini d’inverno; corridoi e stanze con vista sul panorama mozzafiato del fiordo.

Ma non è solo per motivi estetici che un giovane ingegnere del Sud sceglie di fare ricerca in Norvegia; la sconsiderata politica delle università italiane – sempre pressate da interessi baronali e scarsità di finanziamenti – costringe ogni giorno decine di neolaureati a far le valigie per trascorrere lunghi anni all’estero. Ma, fra un viaggio e l’altro col trolley infarcito di magliette della salute e prodotti tipici della madre patria, i nostri ragazzi aprono la loro mente a nuovi orizzonti, e non solo in senso geografico.

Ho provato subito simpatia per gli amici incontrati in Norvegia: Matteo, l’ingegnere ventisettenne con i capelli rasta (dalle nostre parti sarebbe inconcepibile) esperto di estrazioni petrolifere nei pozzi del Mar del Nord; Andrea, anche lui ingegnere, prossimo al matrimonio con Ingrid – la classica vichinga – ormai votato alla pesca del salmone nel fine settimana col futuro suocero. E poi Ivar, il professore depresso che spende l’anno sabbatico nel suo studio; Inge, direttore dell’Istituto di ricerca ed infine i due fratelli napoletani gestori del Ristorantino Italiano nel centro storico, che preparano apprezzabili piatti di pesce alla maniera nostrana e intanto coltivano sui davanzali delle finestre incredibili bonsai di fichi (completi di frutti) di cui vanno giustamente fieri.

Così, il giorno del ritorno ci colse quasi di sorpresa: Trondheim ci salutò con uno splendido sole, che ci regalò addirittura un’aurora boreale sul mare mentre, in tarda serata, eravamo intenti a guardare le acque del fiordo di Oslo dal ponte della nave che la mattina dopo ci avrebbe riportato in Germania (a Kiel, per la precisione).

A questo punto, visto che nel viaggio di andata avevamo fatto il pieno di foreste ed autostrade tedesche, ci dirigemmo senz’altro verso la Francia. Prima sosta: Lille, deliziosamente infiorata e affollata di bouquinistes per la festa della Liberazione. E fu proprio in uno di quei banchetti che acquistai la pagina di copertina del Petit Journal del 28 luglio 1895, in cui erano ritratte un gruppo di signorine di buona famiglia che sostenevano gli esami finali davanti ad un’austera commissione di professori: avvenimento così raro per l’epoca da meritare di essere commentato in prima pagina! “Un’autentica chicca pe me”, pensai mentre gustavo anche l’inevitabile tono enfatico dell’articolo.

La sosta a Parigi mi ha restituito l’immagine di una città sempre più contraddittoria, affollata da file di turisti giapponesi in cerca dell’ultima griffe da esibire in patria; una di essi mi chiese persino, in un cantilenante seppur ineccepibile francese, di aiutarla ad acquistare una borsa di Louis Vuitton alle Galéries Lafayettes. L’altra faccia della città è quella dei miserabili, oggi forse più numerosi che ai tempi di Victor Hugo. Un popolo di clandestini con visi di tutte le razze: sono soprattutto donne e bambini sporchi, senza fissa dimora, con i loro uomini dagli occhi scintillanti di rancore represso. Nel métro, tre di queste bambine tentarono di derubarci, mirando contemporaneamente alla mia borsa e alle tasche di mio marito – con straordinaria abilità – in un congestionato momento di corsa tra una fermata e l’altra, dopo che l’altoparlante aveva annunciato che la linea tre era fuori servizio perché il guidatore era stato assalito… Non c’era proprio da stare allegri, così decidemmo di lasciare l’underground per continuare il giro all’aperto, tra i più rassicuranti marciapiedi di Rue de Rivoli, per noi piena di ricordi.

Ma il pensiero di quelle ragazzine costrette a guadagnarsi da vivere in quel modo ha continuato a tormentarmi a lungo, facendomi rivivere la sensazione delle mani di una di loro che mi toccavano con un’incredibile leggerezza, spingendomi senza che io riuscissi a reagire (c’era un potere ipnotico in quegli occhi?) e dileguandosi poi all’improvviso nella folla al primo segnale di allarme.

Ricordo di aver sentito in quel momento – anche fisicamente – tutto il malessere di trovarmi a vivere in una società palesemente ingiusta, dove giovani menti sono costrette a convogliare le loro energie vitali in direzione dell’illegalità più assoluta, senza che si riesca ad intervenire per impedire il protrarsi e l’ineluttabile aggravarsi di questa situazione.

A distanza, inspiegabilmente, un’immagine di tutt’altra natura si sovrappone ora a quel ricordo, in dissolvenza: indossa un vestito di raso rosa un po’ sgualcito, con lunghe ali bianche che penzolano, la bambina scelta per il tradizionale volo del lunedì dell’Angelo davanti all’Arcibasilica di Prata di Principato Ultra…

Il suo corpicino si libra nell’aria mentre lancia petali di fiori sulla folla trepidante. Posso udire distintamente il tono argentino della sua voce mentre canta un’antica litania di cui non comprendo le parole…

Già, ma questo che c’entra con il viaggio a Trondheim?

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