“Passione e sdegno”
L’indignazione di Dante, difronte a fatti meritevoli di disapprovazione, a volte sfocia in toni polemici o addirittura in invettive, da lui pur sempre pronunciate con parole poetiche.
Nella terza bolgia dell’ottavo cerchio (Inf. 19°), Dante e Virgilio incontrano i simoniaci. Si fermano ivi a parlare con Niccolò III Orsini ed ascoltano la profezia della dannazione di Bonifacio VIII e di Clemente V (il venditore dell’intera Chiesa, trasportata ad Avignone).
Contro i Papi simoniaci, il poeta non riesce a trattenersi dal polemizzare (“Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle”) e domanda : “Deh, or mi dì: quanto tesoro volle/Nostro Signore in prima di San Pietro/ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?/Certo non chiese se non ‘Viemmi retro’ ”.
Il poeta dice poi di moderare le proprie parole per la reverenza al papato ( “E se non fosse ch’ancor lo mi vieta/la reverenza de le somme chiavi/che tu tenesti ne la vita lieta,/io userei parole ancor più gravi;/ché la vostra avarizia il mondo attrista,/calcando i buoni e sollevando i pravi”).
Critica comunque la Curia romana, mutata dai beni temporali in una Roma pagana e vista “puttaneggiar coi regi”. Rimprovera altresì l’imperatore Costantino, non certo per la sua conversione, ma per quella donazione che rese ricco, di una ricchezza che non poteva ereditare, il papa Silvestro I (“Ahi Costantin, di quanto mal fu matre/non la tua conversion, ma quella dote/che da te prese il primo ricco patre!”)
Finalmente, nella settima bolgia .del cerchio ottavo (Inf. 26°), Dante può liberamente manifestare la sua sdegnosa disapprovazione per aver trovato, tra i ladri, ben cinque fiorentini.
Per tale fatto, a lui, poeta e cittadino della sua amata città, “vien vergogna” ed egli non può fare a meno di inveire esclamando con sarcasmo “Godi Fiorenza, poi che s’è sì grande/che per mare e per terra batti l’ali/, e per lo ‘nferno tuo nome si spande”!).
E poi considera che , se sono veritieri i sogni del mattino, presto Firenze sentirà che la vicina città di Prato desidera liberarsi dal suo dominio (non essendo più tollerabile da alcuno l’esistenza di una città peccaminosa) , sì che, a cominciare dalle città più vicine, tutte si augurano la punizione della madre degenere; ed ipotizzando che questa sia già stata attuata, immagina che tutti la considerino tardiva; del che egli si duole pensando che maggiormente ne soffrirà da vecchio.
Pertanto, in queste prospettive, parlano insieme, nelle parole del poeta, l’amore e l’odio.
Nella seconda zona del non cerchio (Inf. 33°),dopo aver udito dal Conte Ugolino il doloroso racconto dell’atroce morte per fame, sua e dei suoi figli e nipoti, rinchiusi nella torre ad opera dell’Arcivescovo Ruggieri, di cui il conte ora rode il cranio, Dante ha un subitaneo impeto d’ira e la sua invettiva tocca il limite dell’assurdo, immaginando che possa esser punita la colpa del traditor Ruggieri con un male ancor maggiore: l’annegamento di tutti i pisani nelle acque dell’Arno, occluse alla foce dall’accostamento di due vicine isolette antistanti. Egli, infatti, inveisce contro un’intera città esclamando “Ahi Pisa, vituperio de le genti/del bel paese là dove il sì suona/, poi che i vicini a te punir son lenti,/muovasi la Capraia e la Gorgona,/ e faccian siepe ad Arno, in su la foce,/ sì ch’elli anneghi in te ogni persona!”.
Disapprova così l’estensione del supplizio, consentita da quella città, ai giovani discendenti del conte, che “innocenti facea l’età novella”, rilevando “che se il conte Ugolino aveva voce/d’aver tradita te de le castella,/non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.”.
Dante e Virgilio passano poi nella terza ziona del nono cerchio, detta Tolomea (Inf. 33°) dove sono dannati i traditori degli ospiti, incontrandovi frate Alberico e Branco d’Oria. Il primo, qualificato come “il peggior spirto di romagna” è rinvenuto dal poeta in Cocito, con una persona scissa in due, il cui corpo è ancora in terra, ma l’anima è già da tempo nell’inferno. Emblematico è qui il riferimento alla vergogna di una società corrotta, che considera viventi taluni traditori che invece già sono dannati.
Il secondo il genovese Branco d’Oria, invitò a banchetto il proprio suocero Michele Zanche e lo uccise per impossessarsi del giudicato di Logudoro.
Anche qui Dante prorompe in un’invettiva, dicendo “Ahi Genovesi, uomini diversi/ d’ogni costume e pien d’ogni magagna,/perché non siete voi del mondo spersi?”.
La poesia di Dante, con le sue inimitabili parole, rimane piena di fascino anche nei versi animati da passioni tanto intense da sfociare nello sdegno che induce a pronunciare invettive.
Esse completano e persino abbelliscono una poetica già di per sé immortale, qual’è tutta la commedia di quell’eccezionale cittadino di Firenze.
I commenti sono chiusi.