La maledizione di Eco
Tra i personaggi della mitologia greca mi ha sempre attratto una figura che, con una metafora cinematografica postmoderna, potremmo definire ‘figlia di un dio minore’: Eco, la “ninfa canora che non sa tacere se parli, ma nemmeno sa parlare per prima. Eco che ripete i suoni (Ovidio, Metamorfosi, libro III). Un tempo aveva avuto un corpo, non era soltanto una voce, ma poi una maledizione scagliatale contro da una dea gelosa l’aveva privata della possibilità di esprimere il mondo affettivo che la pervadeva, se non attraverso l’ecolalica ripetizione delle parole altrui. Innamorata persa di Narciso e – per giunta – impedita com’era, benché potenzialmente loquace, adesso non diversamente usa la sua bocca, non riuscendo a rimandare di molte parole se non le ultime. Non le rimane che inseguire Narciso quando vaga in campagne fuori mano e calcarne le orme di nascosto. Impossibile affrontarlo con dolci promesse e rivolgergli tenere preghiere; l’unica cosa che le è permessa è rimandargli le ultime parole del suo stesso discorso.
Per caso il fanciullo, separatosi dai suoi fedeli compagni, aveva urlato: “C’è qualcuno?” ed Eco “Qualcuno” risponde. Stupito, lui cerca con gli occhi in tutti i luoghi e grida a gran voce: “Vieni” e lei chiama chi l’ha chiamata. Intorno si guarda ma, non mostrandosi nessuno, “Perché – chiede – mi sfuggi? E a quante parole dice, ad altrettante ottiene risposta. “Qui riuniamoci” esclama ed Eco, che a nessun invito risponderebbe più volentieri, “Uniamoci” ripete. Decisa a prendere l’iniziativa, Eco si affretta ad uscire dal bosco per raggiungere Narciso e gettargli le braccia al collo. Lui fugge e: “Togli queste mani, grida, possa piuttosto morire che darmi a te”. Respinta, si nasconde Eco nei boschi, coprendosi di foglie per la vergogna il volto e da allora vive in antri sperduti, ma dovunque puoi sentirla: è il suono che vive in lei”.
Il suono vive in lei! Dunque Eco non è una reietta, ma una persona dotata di profonda vita interiore: nella sua mente albergano frasi musicali indicibili, fonti e insieme veicoli di nobili sentimenti. Che bella frase ha inventato Ovidio per definire questa donna appassionata, sinceramente dedita ad un uomo che purtroppo non possiede i codici per comprenderne le vere intenzioni e non saprà mai quello che sta perdendo. Buon per lui – forse – almeno non avrà rimpianti, vien voglia di dire. Eppure di lì a poco, quando Narciso sarà giunto ad una fatale, limpida fonte e vi si sarà specchiato andando incontro alla morte, si troverà soltanto Eco a dargli – a suo modo – l’ultimo addio.
Mi viene da pensare a quali e quante limitazioni culturali hanno costretto le donne nei secoli – e spesso le costringono ancora – a comportarsi come Eco, a ripetere all’infinito parole messe loro in bocca da altri, fino al punto da tarparsi le ali convincendosi di non avere niente di importante da dire. La frase “Sono come tu mi vuoi”, pronunciata più frequentemente dalle donne (ne converrete) non è quasi mai l’espressione sublimata di un grande amore, ma l’ingenua resa totale all’altrui prepotenza, mascherata da un’affettività invadente quanto avida di potere personale. Perché non può essere vero amore quello che nega il tuo bisogno di riconoscimento e ti costringe ad abdicare alla tua unica ed insostituibile identità, cedendo all’assedio di chi vuole a tutti i costi trasformarti in un’altra persona, rubando i tuoi sogni e ignorando le tue vere aspettative verso la vita. E, tornando alla condizione femminile, quanto ancora sarà costato caro – a quelle che hanno osato farlo – interrompere questa insana consuetudine di dipendenza in famiglia e nella società per dar voce (è proprio il caso di dirlo) alle proprie aspirazioni ed inclinazioni nel lavoro e negli hobbies? D’altronde, recitare la parte di Eco in teatro (e nella vita) in fondo è piuttosto riposante. Non bisogna faticare per mandare a memoria il copione, ma solo ripetere le ultime parole degli altri attori…
Ho recitato una sola volta in vita mia nel teatrino improvvisato di un villaggio marino. La pièce era l’atto unico di Eduardo: “Pericolosamente”; il regista (mio cugino Giancarlo) insisteva nel dirmi che dovevo arrabbiarmi di più con il personaggio che interpretava la parte di mio marito (nostro cugino Mario) fino al punto da esasperarlo, ma io proprio non ci riuscivo. Le mie proteste erano deboli, quasi inconsistenti, tali da far trasparire finanche toni di bonarietà ed acquiescenza, cioè proprio il contrario di quanto previsto dalla sceneggiatura. Nessun dialogo esplicativo tra i due coniugi è reperibile nel testo napoletano, in cui affiora soltanto una barriera insuperabile di reciproca incomprensione tra due mondi distanti e controversi. È un diaframma che spesso si costruisce nella coppia giorno per giorno, a partire dalle prime reciproche incomprensioni rimaste senza un soddisfacente chiarimento, fino a dar luogo nella maturità a malcelati, persistenti rancori che minano alla base la possibilità stessa di realizzare una comunicazione autentica.
Ma, tornando all’ostinata, fatale ecolalia della ninfa destinataria della maledizione più maschilista che si possa immaginare (anche se irrogata come estrema sanzione da una dea) il suo atteggiamento potrebbe essere paragonato ad una patologia mentale definita nel setting psicoanalitico falso Sé compiacente (Winnicott,1974) diffusa prevalentemente nell’età dello sviluppo, quando la struttura identitaria del soggetto va formandosi con alterne vicende al cospetto di figure genitoriali autoritarie e/o iperprotettive. Infatti, perché il bambino cominci a sentire che la vita è reale e degna di essere vissuta, è necessario un holding (contenimento, nel senso di sostegno) che gli permetta di esperire un senso di Sé progressivamente emergente, che si manifesta come auto-percezione di essere vivo e d’integrarsi con l’ambiente. Guai, ad esempio, ad un alunno studioso – oggetto dell’imperversante orgoglio dei familiari – a consentirsi per una volta di prendere un voto mediocre nella valutazione; di fronte alla delusione disegnata sui volti dei genitori sarà costretto a rincorrere ancora affannosamente il mito dell’eccellenza; il che gli costerà un’ansia da prestazione che probabilmente lo accompagnerà in futuro per molto tempo. Ma il falso Sé compiacente può strutturarsi anche in una sbilanciata vita di coppia, in cui sussista una cronica indisponibilità emotiva in uno dei partner, deciso a prevaricare con la pretesa di esercitare un occulto potere sull’altro attraverso il ricatto morale. Il conflitto psicologico che ne deriva oscilla tra la continua tensione del soggetto cosiddetto sano tra il desiderio di rapportarsi all’altro, che implica dipendenza, ed il bisogno di essere riconosciuto, che sottende l’identità e l’autonomia. Fatto sta che il fenomeno in questione si verifica sempre negli ambienti primari, dove i sentimenti si esercitano nelle forme più intense e coinvolgenti. O si domina o si è dominati è il titolo di un libro di Dario Bernazza che tempo fa (1994) descrisse con efficacia il bisogno di vivere da protagonista e non da comparsa la propria vita.
È il caso di riflettere su quanta energia mentale vada sprecata tuttora nel mondo delle relazioni affettive, ma anche più genericamente sociali, a motivo delle occasioni mancate (o perdute) per l’instaurarsi di atteggiamenti di prevaricazione all’interno dei rapporti comunicativi. Viziati dall’invadenza e dal mancato rispetto degli ambiti identitari altrui, tali rapporti risultano poco significativi per entrambi i soggetti sul piano affettivo (Non ti sopporto più) come su quello cognitivo (Non ti capisco più) determinando nel quotidiano amarezza e insoddisfazione invece di empatia e alleanza.
In tempi di auspicata economia circolare, non sarà forse opportuno provare in qualche modo a far tornare in circolazione temi, emozioni e sentimenti connessi alla reciprocità e all’accoglienza?
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