“Rumori, Suoni, Musica… l’Evoluzione…”
Tutte le mattine, c‘è un Amico che mi anticipa puntualmente nell’augurarmi buongiorno con WhatsApp, e lo fa corredandolo pure di bei filmati e sketch divertenti. Qualche settimana fa, nell’attesa di leggermi – bontà sua – negli articoli del sabato, mi esterna, spudoratamente, un desiderio. Di parlare una volta, dell’argomento in intestazione: le parole del virgolettato sono le sue, testuali.
Proviamo ad accontentarlo, e con Lui spero i Lettori. Mi fa specie solo una cosa, però. Che nonostante i suoi trascorsi di tastierista di un famoso gruppo musicale anni ’60, noto in tutta la regione… e non solo, si rivolga a me che al massimo, da ragazzo, strimpellavo la chitarra sulle canzoni di Battisti.
Ma tant’è, un vero Amico si cerca sempre di accontentarlo – nell’ambito del possibile – è chiaro. Il taglio capirete, data la mia estrazione formativa, sarà principalmente di tipo scientifico, poi musicale.
Come uno scolaro all’interrogazione, riproduciamo con ordine l’intera scaletta.
Rumori
Partiamo dal concetto che qualunque cosa venga percepita dai nostri orecchi deve produrre vibrazioni. Queste si diffondono attraverso delle onde acustiche e come quelle del mare hanno bisogno di un mezzo per propagarsi. Il mezzo nel nostro caso è l’aria. E la percezione, dovuta alla pressione del mezzo sui nostri timpani, varia a seconda del tipo di atmosfera. Ad esempio: se fossimo immersi nell’elio – gas diverso dall’aria – percepiremmo la nostra voce come quella di certi cartoni animati, in falsetto.
Per farla breve, qualunque cosa è rumore se riproduce vibrazioni casuali e non periodiche. Fino all’inizio del 1900 il rumore era considerato alla pari di una bestemmia in qualunque spartito di musica classica. Poi il “secolo breve” è risultato invece lungo in tante cose. Il compositore francese Erik Satie (1866-1925) scrisse un brano intitolato Parade nella cui esecuzione hanno una parte importante: una macchina da scrivere e una sirena di nave. Subito dopo arrivarono le avanguardie. Lo statunitense John Cage (1912-1992) compose nel 1959 Sounds of Venice, per pianoforte, introducendo: una scopa, una lastra di mamo, una gabbia per canarini (in onore, forse, al suo cognome), uno Slinky amplificato e altri “strumenti” bizzarri.
Come ebbe a dire Cole Porter, il principe delle più belle canzoni da musical (sua: Night and Day ), “Nel mondo rumoroso di oggi va bene tutto”.
Ancora un cenno al mio amore imperituro, I Beatles. Nel compore A Day In The Life, John Lennon volle aggiungere – a metà brano – una sorta di rumore che simulasse la fine del mondo. Venne riprodotto da un’orchestra dove ad ogni strumentista si disse soltanto che dovevano salire dalla nota più bassa a quella più alta del registro del loro strumento, ognuno con una propria nota a scelta, senza sapere cosa suonasse chi gli era accanto. Per concludere il brano Lennon usò un acutissimo fischietto – al limite dell’udibile per l’uomo – perché il suo “compare di composizione”, Paul McCartney voleva che fosse un pezzo non solo per gli umani, ma anche per i suoi amati cani: Martha, Fluffy e Rover.
Per finire una menzione al rumore come croce e delizia per almeno due settori del campo di ricerca: uno nobile, quello dei cosmologi; l’altro un po’ meno come i patiti dell’Hi Fi. I primi a perdere il sonno alla ricerca delle primigenie tracce del “rumore di fondo” del Big Bang. I secondi ad aggiungere al sonno i denari, alla ricerca della più fedele riproduzione musicale in un impianto ad Alta Fedeltà, con amplificatori McIntosh o casse acustiche Sonus Faber, per il miglioramento del famigerato rapporto Segnale/Rumore.
Suoni
Il suono – prendiamo una nota – è di contro, generata da vibrazioni periodiche che si ripetono continuamente con regolarità precisa. Un suono ha un’altezza definita e riconoscibile. La rappresentazione fisica è un’onda sinusoidale.
Perdonatemi le prossime due formule trigonometriche, sono le uniche in tutto il testo. Lo so, per molti di Voi saranno indigeste, ma non me ne vogliate. Anche il dentista quando vi sedete sulla sua sedia, per migliorarvi il sorriso, si scusa se sarà causa di un po’ di dolore.
Il suono musicale più semplice – facciamo il Do centrale di un pianoforte – può essere espresso con questa formula: y=a sen wt, dove t indica il tempo, a è l’ampiezza, cioè il massimo spostamento della vibrazione rispetto alla posizione di riposo, e w (la lettera greca omega) è la frequenza angolare, una grandezza che è proporzionale alla frequenza vera e propria f (il numero di cicli al secondo) che si ricava da: w=2πf.
Il La, sopra il Do centrale, per esempio, ha una frequenza di 440 cicli al secondo (440 cps o Hz). Stop.
Fatto male ? Spero di no.
Le note musicali possono essere prodotte da un diapason, una corda di chitarra, una colonna d’aria in una canna d’organo e riprodotte da qualunque altro strumento musicale.
L’orecchio umano è un organo stupefacente. Riesce a percepire le frequenze più basse da 20 Hz fino a quelle più alte 20.000 Hz. Tanto per rendere l’idea, le frequenze di circa dieci ottave. Un pianoforte a coda ha una gamma di poco più di sette ottave. Facendo la correlazione con i suoni, al confronto i nostri occhi, invece, possono vedere meno di due “ottave” dello spettro elettromagnetico, da circa 4.000 a 7.000 angstrom (un angstrom = 10-12m).
Ma l’orecchio è superiore all’occhio anche in un altro modo, forse più significativo. Mentre l’occhio può percepire solo una lunghezza d’onda, cioè un colore, per volta – per esempio, quando i colori giallo e blu sono mescolati, l’occhio vede verde – l’orecchio può sentire molte frequenze contemporaneamente e percepirle come toni distinti. Senza questo dono non saremmo in grado di distinguere uno strumento musicale da un altro. Quello che noi chiamiamo il timbro, fa si che ai nostri orecchi una tromba abbia un suono diverso da un violino.
Ma c’è di più: una nota “pura” ha un suono piuttosto noioso. Il diapason ha un suono puro. Un’orchestra composta da un certo numero di diapason, allontanerebbe, per la noia, qualunque pubblico. Tutti gli strumenti musicali, invece, emettono per la maggior parte timbri composti, ciascuno con una nota più bassa, la fondamentale, e una serie di “armonici” che hanno frequenze crescenti partendo dalla stessa fondamentale – l’eccezione sono gli strumenti a percussione, i cui ipertoni non sono armonici -.
Il matematico francese Jean Baptiste Joseph Fourier nel suo trattato fondamentale Théorie analytique de la chaleur (1822) espose la sua teoria sulle “serie” trigonometriche. Il tutto, poi si andrà a riassumersi in quello che porta il suo nome: il Teorema di Fourier. L’importanza di questo teorema per la musica è notevole. La scomposizione di ogni suono musicale nelle sue varie componenti armoniche ha lo stesso ruolo fondamentale dei numeri primi, nella teoria dei numeri. Sono i fondamenti su cui si forma qualsiasi suono. Pensate alla sua utilità nel trasdurre un segnale sonoro in onde elettromagnetiche per qualunque strumento di riproduzione sonora: dal giradischi al lettore cd.
Musica
Il connubio tra Matematica e Musica come tutti ricordiamo dagli studi scolastici, è antichissimo: risale al VI – V sec. a. C. con Pitagora di Samo e la sua Scuola – per l’appunto – Pitagorica. Pitagora si interessò allo studio dei corpi vibranti tipo: corde tese, bicchieri pieni d’acqua, campane e tubi. Si dice abbia costruito un primitivo strumento musicale, il monocordo, costituito da una singola corda fissata ad una tavola armonica e affiancata da una scala numerica. Stabilì l’intervallo di musica fondamentale: l’ottava, tentando di suddividere questo intervallo musicale, piuttosto ampio, in parti più piccole. Sperimentò i rapporti tra le lunghezze delle corde con i suoi segmenti più piccoli, giungendo ad una conclusione importante: i rapporti tra i numeri più piccoli producevano combinazioni di suoni armoniosi e piacevoli: le consonanze. Mentre i rapporti tra i numeri più grandi producevano dissonanze. I principali intervalli tra i primi erano l’ottava (1:2), la quinta (2:3), e la quarta (3:4). Intervalli che conservano il loro valore anche nella scala diatonica odierna. “Il numero governa l’universo” divenne il motto della Scuola. Questo stesso pensiero avrebbe dominato il pensiero scientifico per i successivi duemila anni.
La scala pitagorica sembrava una grande invenzione: si distingue per la sua semplicità visto che impiega potenze di un solo rapporto, 3:2. Ma questa semplicità è ingannevole, non contempla il concetto che ogni studente di musica apprende per primo: il circolo delle quinte che contempla le tonalità maggiori e minori della scala diatonica. Ahimè, è impossibile farlo con la scala pitagorica da un punto di vista matematico: non esistono valori interi positivi del rapporto m e n tali, ad esempio, che l’equazione (3/2)m = 2n sia soddisfatta.
Ricordo solo che la tonalità prende il nome dalla sua nota più bassa del brano: la tonica.
Tralasciamo la nomenclatura delle note, salvo ricordare la loro simbologia in inglese: C (Do), D (Re), E (Mi), F (Fa), G (Sol), A (La), B (Si), C’ (Do dell’ottava successiva). I bemolle ♭e i diesis ♮ sono chiamati rispettivamente flat e sharp, in inglese.
Come per la matematica e le arti pittoriche che si servono dei sistemi di riferimento: il piano cartesiano, le coordinate polari o il disegno prospettico, la musica si serve delle tonalità di intonazione e delle scale. Anche qui alcuni esempi senza scendere in particolari tecnici: scala maggiore, scala minore, scala pentatonica, scala a toni interi, scala cromatica. E non dimentichiamoci altre caratteristiche importanti della musica: il ritmo, il tempo e la metrica espressi all’inizio della segnatura delle note sul pentagramma.
Fine delle pedanterie tecniche, adesso: promesso.
Parliamo, perciò, di alcune curiosità simpatiche a proposito delle tonalità.
Sapete perché – prendete le nove sinfonie di Beethoven e i suoi movimenti – erano preceduti oltre che dal numero dell’opera e della tonalità anche dai più vari attributi di emotività, come: brillante, eroico, tragico, allegro?
E’ perché si era nel periodo romantico della musica, e questa tendenza a classificare emotivamente era frutto dell’epoca e non solo per la potenza espressiva delle opere del compositore tedesco.
Esprimerò un mio pensiero al riguardo: Se ascoltate – e Vi invito a farlo perché è liricamente maestoso – il secondo movimento della Settima di Beethoven, questo viene denominato “ allegretto”. Francamente io l’avrei denominato “dolente”, o più in generale “suggestivo”, non certo “allegretto” .
Ma anche i critici musicali dell’epoca si esprimevano in questi termini. Quando Robert Schumann compose la sua prima sinfonia, la Primavera, un critico la descrisse come “luminosa” come se la tonalità in Si bemolle maggiore avesse una qualità sensoriale di per sé.
Il compositore Hector Berlioz, si spinse ancora oltre: attribuì espressioni emotive ad ogni tonalità delle dodici maggiori e delle dodici minori. Es: Re diesis maggiore, era “smorzato”. Mi bemolle maggiore, era “maestoso, abbastanza sonoro, dolce, grave”. La cosa curiosa, però, è che ai tempi del compositore era già conosciuto il temperamento equabile. Cosa voglio dire? Che, Re diesis maggiore e Mi bemolle maggiore sono tonalità enarmoniche, cioè suonano esattamente allo stesso modo, e differiscono solo per note e notazione.
Un’ultima “notazione”: Franz Schubert ultimando la sua Quarta sinfonia, decise di chiamarla “tragica” prendendo a modello la Quinta di Beethoven e il suo famoso cupo inizio percussivo del “destino che bussa alla porta”.
L’Evoluzione
Quando insegnavo, il tormentone di quando si arrivava agli esami, per i ragazzi, era la fatidica tesina e i possibili collegamenti interdisciplinari sugli argomenti da trattare.
Adesso, se fossi io l’alunno – ahhh!.. come esclamazione alla loro beata età – il parallelo tra la Matematica, includendo la Fisica – e la Musica e la loro evoluzione, lo troverei abbastanza appropriato. Soprattutto nelle tecniche di indagine che partendo dagli stessi presupposti disciplinari, hanno prodotto risultati oltre che innovativi in alcuni casi rivoluzionari. Sia chiaro: chi non fosse d’accordo sui collegamenti è liberissimo e padronissimo di sostenerlo, soprattutto il mio Amico committente, che in fatto di musica la sa molto più lunga di me.
Partendo dal “rinascimento delle scienze” – dopo il lungo periodo per affrancarsi dalla scienza greco alessandrina – con lo studio dei moti celesti di Galilei, Copernico e Keplero, questo periodo lo potremmo tranquillamente assimilare alla musica rinascimentale di Palestrina e Monteverdi, mettendoci pure Vivaldi, vah.
Poi vengono i giganti: Isaac Newton col suo calcolo infinitesimale e la meccanica classica e sull’altra sponda Johann Sebastian Bach e in misura, forse, minore Hendel: è il periodo barocco.
Delle corrispondenze tra suoni e matematica, abbiamo già parlato con le serie di Fourier, ma ci sono anche quelle di Ferdinand von Helmholtz col suo trattato “ La teoria delle sensazioni sonore come base fisiologica per la teoria della musica” (1863) che mette insieme: matematica, fisica e fisiologia. Lo spunto di scrivere l’opera gli venne interessandosi ai suoni di combinazione (detti: i tre suoni di Tartini) del violinista e compositore Giuseppe Tartini.
L’800 nelle scienze si apre con la scoperta dell’elettromagnetismo: prima da parte dell’inglese Michael Faraday e poi dallo scozzese James Clerk Maxwell. Questa scoperta diede una profonda svolta di cambiamento all’ immagine meccanicistica della fisica newtoniana. Ma questo è anche il periodo delle grandi sinfonie. Prima, nel ‘700, c’erano state quelle di Franz Joseph Hayden e poi ancora quelle di Wolfang Amedeus Mozart. Nelle quattro equazioni differenziali di Maxwell c’è un’elegante simmetria interna che somiglia molto allo sviluppo altrettanto elegante delle partiture di Mozart.
Le onde elettromagnetiche diedero la stura a tutta una serie di scoperte che nei secoli successivi hanno dato origine: al telegrafo, alla radio, alla televisione.
E la svolta di Ludwig van Beethoven, dove la mettiamo ? se non in questo filone di rinnovamento. Trasformare la sinfonia, come lui fece, in una potente esperienza emotiva, capace di sollevare lo spirito umano – come può fare solo una grande opera letteraria o una innovativa scoperta scientifica – da indirizzare al mondo intero, ha qualcosa di epocale. Beethoven scrisse solo nove sinfonie, di contro Hayden ne scrisse 104, Mozart 41, ma le poche di Beethoven non vennero mai superate né in magnificenza e, curiosamente, nemmeno in numero. Nessun grande compositore del IX sec. osò scriverne più di nove. Franz Schubert ne scrisse otto, Robert Schumann e Johannes Brahms quattro ciascuno, Hector Berlioz solo una. Tanto che si parlò di “maledizione della nona”. Questo timore attanagliava Gustav Mahler al punto che – secondo il racconto di sua moglie Alma – temeva che sarebbe morto se avesse tentato di scrivere una decima sinfonia. In effetti il suo presentimento si avverò: alla sua morte, nel 1911, la decima rimase incompiuta. Ognuna di queste ultime sinfonie citate, in particolare quelle di Mahler, contengono delle variazioni e delle innovazioni “moderniste” assimilabili, certo con un po’ di fantasia, alle varie applicazioni nel campo dell’elettromagnetismo.
Con l’inizio del XX secolo ci si trova, dopo pochi anni, ad assistere a due sconvolgimenti, questi si davvero rivoluzionari, rispettivamente nel campo della Fisica: Albert Einstein e in quello della Musica: Arnold Schoenberg. Si può discutere sulla diversità di portata delle due “invenzioni” e i più si schiereranno, non c’è dubbio, a favore dello scienziato. Ma entrambi diedero una svolta che avrà le sue ripercussioni sugli sviluppi futuri delle due discipline.
Le loro vite furono notevolmente simili. Erano nati a cinque anni di distanza, Schoenberg (1874-1951) a Vienna, e Einstein (1879-1955) a Ulm, in Germania. Entrambi ebrei, emigrarono negli Stati Uniti all’avvento del nazismo nel 1933. Einstein si adeguò alla pronuncia americana del suo cognome. Schoenberg cambiò immediatamente l’ortografia del proprio, da Schonberg, troppo tedesco, a Schoenberg. Entrambi geniali anche nelle scoperte “artigianali”: Schoenberg progettò una macchina da scrivere musicale. Einstein, con un amico, inventò e brevettò un frigorifero. Alcuni anni dopo la fine della II Guerra Mondiale, lo stato di Israele voleva che Einstein diventasse il secondo presidente della nazione e lo scienziato si rifiutò, Schoenberg fu nominato presidente onorario del principale istituto musicale israeliano. Morirono come erano nati, a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, entrambi a settantasei anni. Nella loro vita ebbero modo di incontrarsi solo due volte, nel 1934. La prima quando il compositore tenne una conferenza a Princeton e poi quando Einstein fu l’ospite d’onore in un concerto di beneficenza alla Carnegie Hall di New York.
Negli stessi anni in cui Einstein stava plasmando le sue idee sulla relatività generale, Schoenberg cominciò a pensare a un nuovo sistema di composizione che, sperava, avrebbe soppiantato la musica tradizionale basata sulle tonalità. Einstein impiegò dieci anni a completare le sue idee sulla relatività: dal 1905 con la “relatività ristretta” e il novembre del 1915 con la pubblicazione della “relatività generale”, con i principi di equivalenza e la sua nuova teoria sulla gravitazione in cui la curvatura dello spaziotempo – a differenza dallo spazio euclideo “piatto” – avrebbe modificato in maniera del tutto nuova il concetto newtoniano di azione a distanza.
Schoenberg impiegò, invece, dodici anni per portare a compimento il suo nuovo sistema di “notazione atonale”. Al compositore non piaceva la definizione “atonale”, che i critici cominciarono ad assegnare alla sua musica. Al contrario, sottolineò sempre che la sua musica era molto strutturata; semplicemente non seguiva il sistema tonale. Lui preferiva chiamarla “pantonale”, in cui tutte le note rivestono un ruolo uguale.
La inaugurò in due composizioni, i Funf Klavierstucke (cinque pezzi per pianoforte) op. 23, e la Serenade op.24, entrambe completate nel 1923. Descrisse il suo nuovo sistema, che seguiva rigide regole di tipo matematico, come un “metodo per comporre con dodici toni che sono correlarti solo l’uno all’altro”, ciascuno scelto tra le dodici note della scala cromatica. Una nota la si può disporre in qualsiasi ordine, ma ogni nota deve apparire esattamente una sola volta prima che la sequenza sia completa. Questa sequenza “la serie” era il fulcro del nuovo sistema di Schoenberg. In seguito, la sua musica, acquisì altre denominazioni: musica seriale o dodecafonica.
Addio, quindi, alle gerarchie tonali in cui ogni nota aveva una specifica relazione musicale con la tonica. La si potrebbe chiamare, a questo punto, “musica relativistica”.
Per citare il compositore e direttore d’orchestra Pierre Boulez (1925-2016), “Con il sistema dodecafonico, la Musica al pari della Fisica, è uscita dal mondo di Newton per entrare in quello di Einstein”.
Al termine di questo articolo “monumentale” – esclusivamente per la sua eccessiva lunghezza – permettetemi di dedicarlo a due Amici. Uno, ahinoi, recentemente scomparso: il Maestro Mario Cesa. L’altro, per fortuna vivo e vegeto e atripaldese come me, che sta mietendo, da anni, meritati successi in ambito concertistico: Il Maestro Antonello Capone.
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