Lettera immaginaria ad Alfredino

Quante volte sei venuto, e ancora vieni, a bussare al portone delle mie notti inquiete? Pochi colpi al sonno agitato e ti infili, veloce, tra le pieghe delle ciglia. “Vieni con me” mi dici e, come un mago, inizi a modificare la scenografia agonizzante di quella notte, lunga sessanta ore. L’asfissia e la foschia, di quella coperta di pece e rabbia, si dipana e allora riesco a vederti, finalmente, risalire veloce, quasi poggiassi i piedi su una scala mobile. Le mani protese a stringermi in un abbraccio. Il volto sereno, pulito. La maglietta ancora profumata di ammorbidente. I capelli arruffati e rilucenti. Con un guizzo di voce cristallina mi dici: “Ho fame…”, quasi canzonandomi per la mia apprensione, decisamente stupito per il mio sguardo colato di lacrime. Infine spalanchi il tuo simpatico sorriso, per cambiare quel finale che non ho mai accettato. Così, quando si chiude il giorno, insieme a un’altra pesante pagina del presente, si apre un’altra vita nel limbo di quello che poteva accadere e non è accaduto. La tavoletta che non si incastra, perché nessuno la butta giù. La trivella che non si rompe a contatto con la roccia perché nessuno la fa arrivare; nessuno degli speleologi o dei volontari a imbracarsi per tentare di calarsi nel pozzo e salvarti. E lì, nel cerchio del dramma, proprio al centro del nostro infausto vissuto, nessuno intorno: niente occhi, niente foto, niente riprese, niente domande. Ci siamo solo noi ad attendere il tuo ritorno, non dal nero delle profondità ma dal chiaroscuro dei sogni perché tu, in quella parallela esistenza, che sa di frescura e sensazioni asciutte, prive di dolore, non sei nel pozzo ma dormi nel tuo lettino, come avresti dovuto fare quella tragica sera.

Allora il buio si fa alba. Il sole non muore più. Il fratellino ritorna a giocare con te. Io mi ripettino i capelli, cambio il vestito del lutto. Tuo padre si fa la barba. Nella bocca puoi sentire il gusto del latte caldo con i biscotti della nonna, appena sfornati. Le lancette si muovono soltanto nel giorno senza mai giungere all’ora della tua scomparsa. Fanno appena il giro e tornano indietro come balzi nel tempo, si fermano un instante prima dell’affondo del destino. Lottano senza dargliela vinta. Poi, insieme, saliamo su quel volo per raggiungere l’America… alla ricerca di quel dottore che doveva “sistemarti” il cuore. Ma il tuo cuore smise di lottare dopo aver resistito come un leone, pur battendo nel corpo di un uccellino. Di chi è stata la colpa se non sei risalito da quel fondale di terra scivolosa, da quel cumulo di responsabilità senza principio, senza fine e senza una protezione? Oramai a chi importa? Non fa più notizia. Dal pozzo al tubo catodico la discesa è stata la stessa eppure, una volta spenta la tv, il dramma resta, come un morso di ferro che strappa la carne nel corpo disilluso e nell’anima affranta di chi ti ha perduto.

Eppure sono certa che, per ogni bambino che cade, che si perde, che scompare (chissà dove e chissà perché) … tu arrivi, come un angelo, a prenderlo per mano e lo incoraggi, magari cantandogli una filastrocca, a non aver paura. Così avrai fatto per il piccolo Nicola, disperso nel bosco. Gli avrai detto di non piangere, che lo avrebbero ritrovato, salvato velocemente. E stavolta non sarebbe stata una bugia come quelle che noi, invece, dovevamo dirti con quel maledetto megafono che ampliava le corde, acute, della nostra voce e ci rendeva incapaci di rasserenarti, mentre avevi bisogno soltanto di carezze ovattate e silenzio. Ma tu lo sapevi, l’avevi capito, che da quel cono non saresti più uscito a respirare l’aria agrodolce della tua infanzia, per questo dicevi “Basta…”. E quando, quel maledetto 13 giugno, dopo che ti chiamai invano, legando le urla al tuo nome nell’eco del nulla, calarono nel pozzo lo stetoscopio, capii che avevi deciso di scivolare ancora più giù, verso un mondo capovolto in cui potevi riposarti, adagiandoti sul prato sempre verde della serenità, dove c’era la luce che ti mancava e di cui avevi bisogno. La telecamera della Rai, calata a circa 55 metri di profondità, individuò la tua sagoma immobile: dormivi ma senza respirare. E così, per conservare il tuo esile corpicino venne colato dell’azoto liquido a -30 °C. Lo sai, sento ancora il freddo che, dalla schiena, mi invade l’anima. Non ho potuto scaldarti, amore mio. Tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano l’11 luglio seguente, ben 28 giorni dopo, ti avrebbero riportato, assente, tra le mie braccia e io ti avrei cullato… ma inutilmente. L’unica cosa che, lievemente, mi consola è che quel dolore, quelle lacrime scese copiose dai tuoi occhi e cadute, a cascata, negli occhi di tanta gente (che neppure sapeva chi fossi) hanno dato nutrimento ad un minuscolo seme di speranza da cui è germogliata, poi, la Protezione Civile. Ma ancora tanto c’è da fare… perché tragedie come la tua non accadano più. Perché si prevenga per vincere piuttosto che intervenire dopo, quando si è già sconfitti, dalla disperazione.

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