L’étoile della danza interiore
Ho visto per la prima volta dal vivo Carla Fracci danzare al Teatro S. Carlo di Napoli molti anni fa. Si esibiva nel celebre balletto Giselle – una delle migliori interpretazioni di sempre – nel momento forse del massimo fulgore della sua lunghissima carriera; io ero in compagnia di mia figlia Laura poco meno che adolescente, che cominciava ad appassionarsi alla musica classica. Ricordo ancora l’emozione che provammo nel vedere volteggiare sul palcoscenico, solare eterea nel suo immancabile tutù bianco, questa leggenda vivente della danza. Lungi dal percepire in lei la fama dell’arte e della celebrità che l’avvolgeva, mi apparve piuttosto come la personificazione stessa della musica: perfetta, impeccabile fino a sembrare un metronomo vivente per l’assoluta, inarrivabile precisione dei passi e delle movenze. Mi sembrava che i bagliori delle scene le rilucessero nelle pupille, irraggiando di luce gli spettatori, assorti in un silenzio estasiato. Il fascino dei suoi gesti era dovuto alla totale pace interiore che esprimevano, che presto contagiava i presenti, consapevoli di assistere ad un evento speciale, del tutto fuori dell’ordinario. In quel periodo ero seriamente intenzionata ad imparare a suonare la chitarra classica, per cui a casa solfeggiavo e mi esercitavo per molte ore al giorno; avevo la fortuna di essere allieva del giovane e valente maestro avellinese Angelo Pugliese, che purtroppo di lì a poco ci avrebbe lasciati. Con la sua scomparsa, si arenarono ben presto anche le mie velleità chitarristiche, sopraffatte da impegni familiari e lavorativi sempre più gravosi ed impellenti.
Suonare e danzare per me sono ancora oggi niente altro che due approcci complementari di una stessa profonda esperienza spirituale della Bellezza, prima che di una sublime arte espressiva, di cui Carla Fracci è stata mirabile testimone. Lei ha adorato la Bellezza già su questa terra: l’ha predicata dai pulpiti dei palcoscenici di tutto il mondo dall’alto delle sue scarpette a punta, con l’armonia che sprigionava da una femminilità semplice, senza lustrini né esibizioni. Donna d’acciaio e di piume, si è votata completamente a questa sua arte leggera quanto ardua, che non era solo frutto di interminabili ore di esercizi alla sbarra ma di una forza interiore che nel suo intimo danzava il mistero stesso della vita, al riparo e – contemporaneamente – nella celebrazione delle realtà più intime e familiari. Il suo esempio era un invito a perseverare nel coraggio dell’autenticità, in un crescendo senza fine, in cui la fragilità di quel suo rivelarsi come un calice colmo di Bellezza spargeva intorno fragranze primaverili simili a quelle che si sprigionano nell’animo dei visitatori al cospetto della Venere del Botticelli. C’era in massimo grado in lei la consapevolezza della propria fisicità, quell’intelligenza corporeo-cinestetica che Howard Gardner, nell’ambito della teoria delle intelligenze multiple (1983), attribuisce ai ginnasti e ai ballerini: un’abilità in parte innata ma rinsaldata attraverso l’esercizio costante per instaurare un mirabile dialogo musicale tra mente e corpo, tale da imprimere alla mimica gestuale un’assoluta perfezione comunicativa.
Carla Fracci si è sempre definita una donna fortunata ed aveva pienamente ragione a sostenerlo. Se la vita è fatta di coincidenze ed incontri, a lei è capitato di nascere in una famiglia umile, ma che ha saputo comprendere la portata del suo talento senza minimamente contrastarla, anzi sostenendola con l’orgoglio e la tenerezza di un padre tramviere che faceva squillare tre volte la campanella davanti al Teatro alla Scala per salutare la figlia immancabilmente impegnata ad esercitarsi in innumerevoli volteggi a suon di musica. E tutto era poesia intorno alla fatica, alla determinazione di quei passi svettanti sul pavimento di legno dei palcoscenici di tutto il mondo. Tra gli uomini della sua vita, il più importante – Beppe Menegatti – è diventato suo manager e marito, ma soprattutto è stato un Pigmalione, incoraggiandola a seguire il suo sogno, condividendo quella invincibile passione artistica che l’ha dominata per tutta la durata della carriera fino a quando, già minata nel fisico dalla malattia che l’avrebbe portata alla morte, l’ha incoraggiata ad accettare l’ultimo incarico – conferitole dal sovrintendente Meyer – di dirigere la Master Class di danza nel teatro lirico milanese che era diventato ormai da tempo la sua seconda casa.
Carla Fracci certamente sapeva che la vita non sempre riserva la stessa sorte a tutte le donne, molte delle quali – per dissuasioni occulte o fin troppo palesi e violente – sono state precocemente distolte dai loro sogni in nome di irriducibili ricatti morali travestiti da doveri familiari. Non tutti gli uomini, ancora oggi, hanno il coraggio di accettare di avere al proprio fianco una compagna consapevole ed emancipata, in grado di fare dell’innato talento un dono alla società (e alla famiglia!) esprimendo la propria unicità nel campo del lavoro o dell’arte senza nulla togliere agli affetti familiari, anzi aggiungendovi un surplus di entusiasmo creativo e di slancio vitale come solo le donne appagate dalla realizzazione dei propri sogni sanno fare. Una condizione mentale non proprio comune, in cui si esprime appieno – quando si verifica – l’appartenenza ad una società civile e solidale che non solo consente, ma approva e promuove l’autorealizzazione dei cittadini, l’autopoiesi delle doti individuali, per il bene della comunità locale e, nel caso della Fracci, addirittura planetaria. Questo ed altro bisognerebbe insegnare ai ragazzi nell’ambito delle life skills indicate come obiettivi didattici dell’Educazione Civica, che finalmente fa il suo ingresso nel curricolo scolastico come disciplina trasversale, con piena legittimazione teorica, codificata nella valutazione obbligatoria dei risultati finali. Se ben interpretata e sostenuta da un’auspicabile formazione in servizio dei docenti, questa innovazione potrebbe rappresentare un efficace lievito riformatore all’interno della progettazione collegiale nelle scuole di ogni ordine e grado, per favorire la crescita identitaria dei cittadini più giovani, premessa indispensabile di autorealizzazione nel percorso della loro vita relazionale. Insieme a tante altre figure di persone illustri per motivazione etica, coraggio e competenza, la stessa Carla Fracci potrebbe essere presa ad esempio di cittadinanza attiva e solidale per rigore, impegno, dedizione totale agli ideali della sua ineguagliabile arte, realizzati con il supporto consapevole di Beppe Menegatti, con cui ha condiviso un lungo ed esemplare percorso matrimoniale coronato anche dalla maternità.
Dire l’indicibile attraverso il linguaggio del corpo danzante è stata anche l’ambizione di Isadora Duncan, che identificava come precursori della danza contemporanea addirittura Beethoven, Wagner e Nietzsche: Beethoven creò la danza nel ritmo potente, Wagner nella forma scultorea, Nietzsche nello Spirito. Nietzsche ha creato il filosofo danzante. (Duncan, I. L’arte della danza, L’EPOS, 2007). La fusione di arte e vita, parola e corpo, musica e danza realizzano pienamente secondo Nietzsche il principio dionisiaco, dando luogo ad esperienze di comunicazione autentica e senso di appartenenza comunitario. In Così parlò Zarathustra (1885) la danza è esaltata dal filosofo come modalità di vita che genera leggerezza ed identificazione con il cosmo, consentendo di acquisire un elevato senso di sé e dell’armonia cosmica, attingendo alle forze dell’inconscio che in quegli stessi anni Freud andava esplorando. Perciò la Duncan era convinta che un cittadino più musicale non soltanto suonerà, canterà e danzerà meglio, ma saprà scegliere con cura nella vita i brani da ascoltare, le parole da dire, i luoghi dove abitare e incontrarsi; avrà più fiducia in se stesso e nelle proprie capacità creative e relazionali.
Ma come convincere i riottosi ad accostarsi al mondo della musica colta? Ascoltiamo come la pensa su questo argomento il nostro Nietzsche, che sembra proporci un approccio infallibile:
Nella musica si deve prima imparare ad ascoltare una melodia in genere, ad enunciarla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola; quindi bisogna sforzarsi di impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, facendo un esercizio di pazienza …Finalmente arriva un attimo in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, in cui si ha il presentimento che ne sentiremmo la mancanza se non ci fosse più: e così essa continuamente dispiega la sua violenta suggestione e il suo incantesimo, finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la melodia. Questo però non ci accade solo con la musica: allo stesso modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra volontà, pazienza e mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta nella sua nuova, inenarrabile bellezza. È questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore. (Nietzsche F., La Gaia Scienza, Adelphi 1965).
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