La passione politica (… “O tosco, che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto”…)

Il richiamo di un accento fiorentino risveglia in Farinata degli Uberti il desiderio di colloquiare, e magari di polemizzare col probabile avversario politico, di cui egli non conosce ancora l’orientamento. Di qui la sua domanda a Dante “chi fur li maggior tui? ”. Avuta la conferma che trattasi di suoi avversari politici, Farinata non indugia ad attaccare il suo interlocutore, vantando di aver per ben due volte sconfitto e cacciato l’opposta fazione (“per due fiate li dispersi”). Ma Dante non è da meno e subito contrappone la pronta riscossa dei suoi (“s’ei fur cacciati, ei tornar d’ogni parte, e l’una e l’altra fiata; ma i vostri non appreser ben quell’arte”).

L’intervento sulla scena di Cavalcante de’ Cavalcanti, padre di Guido, che per un equivoco è indotto a ritenere che suo figlio sia morto, sembra far sospendere il dibattito politico in corso, che, invece, presto riprenderà (“e se continuando al primo detto…”). Infatti, Farinata, che, impassibile, ha atteso la conclusione dell’intervento di Cavalcante (“supin ricadde e più non parve fora”), non sopporta di apprendere che i suoi non siano stati capaci di rientrare in Firenze; ma, mentre ammette la sua debolezza (“ciò mi tormenta più di questo letto”) reagisce al suo avversario preannunciandogli l’esilio, nel quale sperimenterà la difficoltà di un rientro in patria (“saprai quanto quell’arte pesa”).

Il confronto tra i due, animato dalla loro contrapposta passione politica, che forse nasce da un comune amore di essi stessi per la loro Firenze, ha tuttavia, a questo punto, una inaspettata battuta di sospensione per il rammarico, espresso da Farinata, sull’accadimento con cui gli Uberti vengono, comunque, trattati in tutte le determinazioni cittadine (“dimmi perché quel popolo è sì empio incontr’a’ miei in ciascun sua legge?”). Il suo tono polemico sembra così ammorbidirsi; ma Dante mantiene con durezza e risponde addebitando agli avversari la loro grave responsabilità nell’accaduto della battaglia di Montaperti, nella quale vi fu “lo strazio e il grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso”. A ciò la posizione polemica di quell’avversario, che sino a poco prima si ergeva sdegnoso “col petto e con la fronte com’avesse l’inferno in gran dispitto”, sfuma ulteriormente nel tentativo di far valere almeno un suo merito, allorché dice “ma fu’ io solo, là dove sofferto fu per ciascun di torre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto”.

La combattiva intransigenza ed il desiderio di prevalere sugli antagonisti, nella passione politica, possono oscurare ma non togliere dall’animo quella componente umana pur sempre esistente e capace di manifestarsi anche nel gioco della contrarietà.

I commenti sono chiusi.