IL COVID E LA NOSTRA CLASSE DIRIGENTE POLITICA INADEGUATA
Abbiamo un problema, in Irpinia e in Campania. La qualità della classe dirigente politica e istituzionale. Si dirà: è un problema molto diffuso nel resto del Paese. Vero. Ma se nessuno comincia a curare il giardino di casa propria, “aver compagno al duol…” – checché ne dica il Poeta – non “scema la pena”. La rende più grave. E a nulla servirebbe, nemmeno sul piano squisitamente psicologico, il pianto collettivo – specialmente da noi, nelle regioni del Sud – dove l’autocommiserazione è stata e continua ad essere una delle cause principali della nostra storica incapacità di riscatto. Non fosse così, non si capirebbe perché mai i meridionali eccellono in qualsiasi parte del mondo in cui svolgono le loro attività, e non riescono ad esprimersi altrettanto al meglio nel sistema politico-istituzionale locale.
Il problema ce l’abbiamo ed è enorme. E la domanda è: con questa classe dirigente, possiamo davvero credere di poter affrontare con successo la risalita dal fondo nel quale il Covid ci ha fatto precipitare? Diciamoci la verità: è molto improbabile. Soprattutto perché la questione essenziale non è se riusciremo a spendere la montagna di danaro del Recovery Fund reso disponibile dall’Europa: bruciare soldi è un gioco da bambini, non servono né arte né parte. Senza peraltro contare che quei soldi sono comunque vincolati al raggiungimento di precisi obiettivi strategici. Sicché la questione vera è come verranno spesi e in quali tempi: le leadership future, in ogni campo dei nuovi assetti mondiali post-pandemia, saranno appannaggio dei Paesi che prima e meglio riusciranno ad organizzarsi e ad adeguarsi al cambiamento.
Il problema ce l’abbiamo: in Irpinia, in Campania e a Roma. Sul piano nazionale si sta drammaticamente rivelando proprio in questi giorni: a torto o a ragione, in verità più a ragione che a torto, è proprio sulla scadente qualità del Recovery Plan che il governo Conte è arrivato ad un passo dalla crisi; e c’è addirittura chi evoca le urne, magari soltanto per esorcizzarne il pericolo. È comunque un dato di fatto che la “scossa” di Renzi, lungi dal poter provocare un cataclisma, denuncia la realtà di un Piano per la ripresa privo di orizzonti strategici apprezzabili, un rilievo del resto condiviso da larga parte delle forze sociali e da settori importanti della stessa maggioranza parlamentare.
La scadente qualità del Piano non può che riflettere la qualità di chi lo ha concepito. Dunque. quanto al livello della rappresentanza politica e istituzionale centrale, i conti tornano e tanto più. Ma si tratta di una rappresentanza democraticamente scelta dal popolo italiano. Perciò dobbiamo tenercela, a meno che non si inceppino in modo irreparabile i meccanismi regolati dal nostro sistema parlamentare: viene meno l’attuale maggioranza, se ne cerca un’altra; non si trova, si torna alle urne. Ciò in teoria. Sul terreno pratico, vedrete, tutto si aggiusterà: il Piano sarà cambiato, i 5Stelle dovranno abbassare la testa, il Capo del governo non avrà difficoltà ad adeguarsi pur di restare in sella, poco importa se con l’attuale Conte 2 o con un Conte 3.
Ma torniamo al problema della classe dirigente politica e istituzionale dell’Irpinia e della Campania, ai nostri “giardini” visibilmente tenuti male.
A differenza del piano nazionale, dove le crisi di governo possono trovare sbocco in più soluzioni, da quelle soft a quelle estreme, in Irpinia e in Campania è inverosimile che si determinino condizioni tali da richiedere il ricorso anticipato alle urne. Le assemblee elettive sono caratterizzate da maggioranze ben salde. Insomma, i consiglieri regionali e i sindaci e i consiglieri dei comuni capoluogo, giusto per citare le istituzioni periferiche maggiori, dovremo tenerceli: i primi per cinque anni, gli altri fino alla scadenza variabile dei rispettivi mandati.
Significa anche che dobbiamo rassegnarci al peggio, all’attesa di ricambio dell’attuale classe dirigente se e quando avverrà? Decisamente no. Sarebbe un atteggiamento ancora più deleterio delle evidenti insufficienze di chi oggi ci rappresenta.
Serve piuttosto tentare una via d’uscita capace di limitare al massimo i danni. Se possibile, capace di far recuperare comportamenti istituzionali tanto rigorosi da compensare almeno in parte i limiti vistosissimi di pensiero politico e di azione amministrativa di larga parte di questa classe dirigente.
È uno sbocco possibile. Prendete la Regione. La Campania ha un leader istituzionale di sicuro spessore. Nonostante qualche comportamento molto inopportuno e scorretto che avrebbe potuto e dovuto evitarci, De Luca ha capacità di guida e di gestione decisamente fuori dal comune. Ha carattere e lucidità, ha visione strategica e coraggio, è decisionista, sa assumersi le proprie responsabilità, talvolta rischiando l’abuso (nella giungla del nostro ordinamento amministrativo) pur di raggiungere l’obiettivo.
Ma quale collaborazione concreta di idee, di proposta, di lavoro gli danno il Consiglio regionale, il suo partito, le altre forze politiche di maggioranza e di opposizione? Oltre al rilievo stucchevole di “uomo solo al comando”, non pare si leggano in giro spartiti di buona musica. A parte le solite “tarantelle napoletane”, note – si perdoni il bisticcio – degne di nota non se ne odono, dibattito politico praticamente assente: non ci fosse un sottofondo sindacale – rivendicazionista con forzature demagogiche quanto si vuole, ma pur sempre vivo e presente – si ascolterebbero soltanto luttuosi lamenti di préfiche nemmeno bene intonati.
Ecco: in mancanza di idee e proposte, il silenzio sarebbe già di per sé un comportamento istituzionale corretto. L’alternativa possibile, e auspicabile, è che De Luca si assuma la responsabilità di vestire anche i panni di Capo del suo partito in Campania, per stimolare da questa posizione il coinvolgimento delle migliori risorse culturali e sociali in un grande confronto politico sulla Regione del dopo-Covid. La verità che sembra sfuggire all’attenzione dei vari palazzi del potere è che su questo tema siamo già in gravissimo ritardo. Altrove, in Europa, da mesi si discute su come velocizzare al massimo i processi di adeguamento ai due trend tecnologici – Digitale e Sostenibilità – che la pandemia ci ha fatto riscoprire e apprezzare in tutta la loro ineluttabile utilità. Nel consiglio comunale di Avellino – paradigma della peggiore sciatteria politica e istituzionale – si continua oziosamente a discutere dell’insostenibile leggerezza del niente: lo specchio fedele di forma e sostanza della classe dirigente che rappresenta l’Irpinia al Governo, in Parlamento e in Consiglio regionale. Amen.
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