La terza ondata Covid è in agguato e la politica gioca
La città di Avellino può sperare (forse) di combattere meglio il Covid fino a quando – auguriamoci il più presto possibile – vaccino e più efficaci terapie non ci avranno fatto superare l’emergenza che già da dieci mesi ha sconvolto ritmi, psicologia ed economia delle nostre esistenze individuali e collettive, seminando morti, sofferenze, disagi e nuove povertà.
Può sperarlo Avellino perché, in un sussulto non si sa “de che”, perfino il suo sindaco – il “tutto enjoy”, Virus compreso – ha finalmente capito che le cose, anche dalle nostre parti, stanno di gran lunga peggio di quanto egli avesse immaginato durante le follie estive (leggi movide saltellanti in pieno centro), ed ancora un paio di settimane fa: quando, in coro con il collega di Benevento, ha tentato di far credere – urbi et orbi – che Napoli, Caserta e Salerno sono l’Inferno mentre le terre irpina e sannita profumano di Paradiso.
In un sussulto non si sa “de che”, dicevamo, la sera dell’Immacolata il sindaco di Avellino si è specchiato nel suo “Io cosciente” ed ha trasferito alla città un post di questo tenore: Da padre e da sindaco, non ritengo ci siano le condizioni per riaprire le scuole… C’è un aumento dei casi, una piccola risalita negli ultimi 15 giorni.
Detto da lui, che ha sempre negato, pur di procurarsi visibilità contrapponendosi a De Luca, fa specie: è notizia. Una notizia – e ci siamo – che aiuta: perché fin qui il sindaco di Avellino non è apparso un esempio “anti-Covid” da emulare; ha piuttosto comunicato ai suoi amministrati un messaggio ambiguo, una miscela di permissività e di incauto ottimismo che al fondo delle cose ha fatto il gioco del Virus. Tuttavia, meglio che tardi che mai.
Il riferimento al primo cittadino del capoluogo è tutt’altro che casuale. Serve per riflettere sulla circostanza che i “pentimenti” tardivi – chiamateli pure prese di coscienza, se volete – possono indurre effetti più difficilmente governabili. È un rischio che stiamo correndo proprio in questa fase, in Irpinia e in Campania come nel resto d’Italia, e per responsabilità – manco a dirlo – soprattutto di chi ci governa, sia a livello centrale che periferico.
Dell’Irpinia, attraverso il caso Avellino, abbiamo di fatto già detto. Del governo centrale, manco a parlarne: è una contraddizione vivente. Stranamente, per stare alla Campania, non si sottrae ai paradossi nemmeno il governatore De Luca. Fino ad una settimana fa è stato il più irriducibile “Sceriffo” del rigore anti-Covid: le sue pistole perennemente fumanti hanno mantenuto altissima l’attenzione e la tensione sul pericolo del contagio. Poi ha cominciato a parlare di Campania Zona Gialla, sollecitandone il passaggio dall’Arancione in tempi rapidi, non si capisce nemmeno lui a mo’ “de che”. Per dimostrare i “miracoli” di cui ha parlato nel suo ultimo venerdì, ovvero della previsione che la Campania sarà la prima regione d’Italia ad uscire dall’incubo Covid?
Noi tutti ce lo auguriamo. Noi tutti saremmo ben lieti di beatificare “Vincenzo da Salerno” saltando tutte le fasi del processo. Di più: ne avessimo la facoltà, saremmo tutti felicissimi di farlo direttamente Santo oggi stesso, ma a condizione che ci fosse almeno una parvenza di certezza che saremo i primi – ma anche i secondi, va! – ad uscire dal tunnel della pandemia. La verità è che qui non c’è evidenza né alcuna parvenza d’un bel niente. A dirla tutta, qui a stento resiste la speranza.
Attenzione: non è pessimismo. È realismo. Oggi noi siamo messi molto peggio che a marzo, in Campania e nel resto d’Italia. Non lo dice il sottoscritto, che non è virologo, infettivologo, epidemiologo, o quant’altro. Lo dicono i numeri ufficiali delle istituzioni preposte. Ragion per cui le idee di tutti noi non possono che confondersi ancor più quando i livelli istituzionali alti – da Palazzo Santa Lucia a Palazzo Chigi – con una mano ci rassegnano numeri drammatici di morti e contagi, con l’altra si affrettano a cambiare colore alle regioni: da Rosso ad Arancione, da Arancione a Giallo, magari solo perché è Natale e bisogna essere tutti più buoni e più generosi e più… – diciamoci la verità – tutti più “politici”. Arlecchinate che non divertono, piuttosto ti mettono di malumore, giusto per incoraggiarci con gli eufemismi.
Diversamente come spiegarci – con razionalità, senza ombra di emotività – che mentre la politica gioca a nascondino un riferimento di sicura Scienza ed Affidabilità, qual è Ilaria Capua, ci avverte che “la terza ondata ci sarà certamente” e che “gennaio e febbraio saranno due mesi terribili”? Si potrebbe aggiungere che l’opinione della Capua è largamente condivisa, da un capo all’altro della Penisola, dagli operatori sanitari direttamente impegnati sul campo e in trincea, spesso senza armi adeguate per combattere il Mostro. E non rileva un bel niente – a cominciare dai numeri della Campania – che abbiamo tanti posti letto Covid in più rispetto a marzo, manco fossimo ansiosi di riempirli al più presto per sentirci soddisfatti dell’impresa meritoria che abbiamo compiuto.
Il problema drammatico è che troppa gente – indipendentemente dal ruolo che ricopre – è convinta (o ha voluto per convenienza oppure per vigliaccheria convincersi) che la battaglia contro il Covid sia stata già vinta. Ma proprio per questa gente, ammesso e non concesso che abbia una parvenza di ragione, la morale della favola – che poi favola non è – può essere riassunta con un aforisma di Napoleone: “Il pericolo più grande si corre nell’ora della vittoria”.
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