Povera e nuda vai, Filosofia…

Voglio partire dall’abusata espressione che qualcuno giustamente denuncia come contraddittoria ed inappropriata: “Introdurre la filosofia” – insinuarla da qualche parte – come se non fosse già presente e operante nelle menti degli studenti delle scuole di ogni ordine e grado, nelle famiglie, nelle strade, nei mercati, nei caffè, nei musei, nei cortili, nelle canzoni, nelle carceri: insomma, in tutti i luoghi e non-luoghi della vita.

È un’espressione che dice di un imprudente fraintendimento, di una sovrapposizione letale destinata a nuocere sia a chi la provoca che a chi la subisce. Posto dunque che la filosofia è onnipresente, bisogna però – per così dire – stanarla e per farlo occorre assumerne consapevolezza metacognitiva. La via maestra è sempre quella delle domande esistenziali che tanto tormentano gli adolescenti, e non soltanto loro. Domande radicali scaturite sovente da un dolore, da una mancanza, e perciò stesso da un amore che induce timore e tremore. Domande che rivelano tutta la fragilità di cui siamo impastati; la vulnerabilità adolescenziale di un Io che – a tutte le età – è spesso inconsapevole del proprio valore e persino della propria dignità.

La grande metafora della Caverna di Platone manifesta ancora nel nostro drammatico post-moderno tecnologico la sua intatta efficacia: un’energia esplicativa di nessi nascosti tra le pieghe della messaggistica mediatica e digitale dal ritmo incalzante quanto ingannevole, alla quale può tener testa solo il pensiero critico di chi riesce a liberarsi dai ceppi della pigrizia mentale per uscire dalla caverna e muoversi allo scoperto, senza temere l’inevitabile bruciore degli occhi ormai da tempo abituati all’oscurità. Senonché, vedere il mondo da un oblò annoia un po’, ma è terribilmente rassicurante. Perciò non è sempre consigliabile rientrare nella caverna per smascherare l’inganno con un sapiente tocco di Filosofia Civile. Si rischia quantomeno l’incomprensione e la derisione degli schiavi rimasti prigionieri, paghi ormai della loro comfort zone e forse disposti persino all’insurrezione pur di difenderla, con reazioni inconsulte quanto (per loro) gratificanti.
Su tutto questo aleggia, come una brezza sottile, l’eterno, inalienabile diritto alla Filosofia: la sua feconda inquietudine: quella docta ignorantia che sempre trionfa sul pregiudizio e sulla paura dell’ignoto e dell’incompiuto. Che ne sarà di lui in questi tempi di smaccato elogio dell’ignoranza? Troverà mai posto il diritto a pensare in una società attanagliata da policrisi, in cui uno dei maggiori problemi è che le persone più intelligenti sono piene di dubbi e i citrulli traboccano di certezze?

Bisognerebbe imparare a maneggiare il linguaggio con maggiore circospezione: le parole sono atti trasformativi che modellano – nel bene e nel male – le posture mentali dei singoli e delle masse. Quando le parole si fanno più violente perdono di sostanza e finiscono col privare di significato etico la vita pubblica. Peraltro, l’approccio divisivo negli algoritmi funziona molto meglio di quello collaborativo, innescando nei valori sociali un pericoloso percorso in caduta libera. Come credenti, siamo convinti che la Verità ci farà liberi (Giovanni 8.32) ma grazie al cielo non siamo tenuti a credere come dogma di fede che ci farà vincere alle elezioni.

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