IL CORSIVO – Il rapporto Draghi e il nulla di certe politiche nostrane
Un anno fa la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, conferì a Mario Draghi l’incarico di uno studio dedicato alla competitività dell’economia europea.
Non si trattava di un invito alla ricerca di soluzioni per finalità ludiche, tipo chiedere ad uno dei più apprezzati economisti al mondo di reinterpretare in chiave moderna le fiabe di Andersen, magari ipotizzando come se la sarebbe cavata oggi – in materia di crisi energetica e transizione ecologica – la Piccola Fiammiferaia.
Ben altro. Lo studio doveva mirare ad una analisi comparata dell’economia europea con quelle di maggiore valenza e crescita oggi, ossia le economie di Stati Uniti e Cina. Non una ricerca fine a se stessa, naturalmente. Ma la premessa per la elaborazione di un Piano di azioni in grado di salvare la competitività dell’Europa.
Draghi ha lavorato ben undici mesi a questo progetto. Il suo rapporto, tra l’altro, evidenzia “per alligata et probata” il divario di crescita tra Ue e Stati Uniti, l’aumento della competizione con la Cina e la mancanza di presenza europea nel settore tecnologico. Suggerisce anche “la necessità di completare il mercato unico, rendere coerenti le politiche industriali e finanziare in comune i beni pubblici europei”.
Va inoltre ridotto il numero “di scelte che vengono prese all’unanimità, c’è l’urgenza di aprire la porta a nuove cooperazioni e di promuovere debito in comune”.
In estrema sintesi, è infine cruciale il nodo del finanziamento dell’economia. “Per raggiungere gli obiettivi indicati nella presente relazione – scrive Draghi – è necessario un investimento aggiuntivo annuale minimo di 750-800 miliardi di euro, secondo le stime della Commissione, pari al 4,4-4,7% del Pil della Ue nel 2023”.
Il Rapporto Draghi andrebbe letto dalla prima all’ultima pagina da tutti i cittadini europei. Utopia, va senza dire. La tragedia è che non lo leggono – non diciamo tutti gli addetti ai lavori, sarebbe anche qui utopia – ma nemmeno i ministri.
Prendete l’esempio del ministro Matteo Salvini: quello che al pari di Farinata degli Uberti rispetto all’Inferno dantesco, si comporta puntualmente “Com’avesse” l’Europa “a gran dispitto”. Del documento di Draghi (di cui con ogni probabilità non ha letto nemmeno l’indice), e in particolare sulla necessità che l’Ue investa circa 800 miliardi annui per la competitività, ha detto: “Io sono contrario. Il debito comune, con l’Italia che cresce più degli altri, mi sa che equivalga a dire: vado a sistemare i problemi degli altri”.
Qualcuno ha giustamente fatto notare al ministro Salvini che è stato proprio grazie al principio del debito comune che si è potuto finanziare il Pnrr, un fiume di euro dal quale l’Italia ha attinto molto più di tutti gli altri Paesi europei.
Ma tant’è: la sensibilità politica di Salvini sta all’Europa come quella della Lega nordista sta al Mezzogiorno d’Italia. Tuttavia, e grazie a Dio, ormai è solo questione di tempo: sovranismo e territorialismo interno beceri e sfrenati di certi orientamenti ideologici e politici sono condannati all’irrilevanza. Questo non c’è scritto nel rapporto Draghi, ma sarà una delle conseguenze inevitabili della deriva europea se mancheranno le “terapie”, perdipiù urgenti, prescritte da chi ha cognizione di causa delle dinamiche economiche globali: roba un tantino diversa dalla lista della spesa al supermarket cui sono banalmente abituati certi nanetti della politica nostrana.
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