Mielofibrosi: c’è un nuovo farmaco
Una nuova speranza per i pazienti grazie ad un innovativo approccio terapeutico che vede in prima linea Policlinico e Università di Napoli. Ce ne parla il professore Fabrizio Pane, già professore di ematologia all’Università di Napoli, past-president della Società Italiana di Ematologia
Si presenta in genere in maniera subdola: febbre, stanchezza, debolezza, dolori alle ossa, perdita di peso, sudorazione notturna, prurito, che non hanno un’apparente giustificazione. La mielofibrosi è però una neoplasia ematologica particolarmente con decorso progressivamente sempre più aggressivo che può portare a rendere difficili anche attività normali come camminare, salire le scale, farsi una doccia, cucinare. Ad oggi il trapianto di midollo osseo allogenico è l’unica procedura terapeutica che, nonostante sia un’opzione ad alto rischio, può eradicare la malattia e portare alla guarigione ma, nella pratica clinica è purtroppo possibile effettuarla solo nel 10-15% dei pazienti. In alcuni centri selezionati di ematologia italiani, tra cui quello dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli, è già disponibile una nuova cura, il momelotinib, che è una valida alternativa ai farmaci in utilizzo per le forme di questa malattia a rischio più elevato e quando non si può fare il trapianto. I dati clinici dimostrano che questo farmaco è in grado di migliorare rapidamente i due sintomi più invalidanti della patologia: la splenomegalia (ingrossamento della milza) e l’anemia. Il farmaco è già autorizzato dall’Unione Europea, è in attesa di approvazione da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). A parlarne è Fabrizio Pane, già professore di ematologia all’Università di Napoli, past-president della Società Italiana di Ematologia e Chairman del Working Party sulle neoplasie mieloproliferative croniche del gruppo cooperatore Nazionale “GIMEMA”.
“Da alcuni mesi questo nuovo farmaco è stato messo a disposizione gratuitamente dall’azienda produttrice in attesa dell’autorizzazione italiana alla commercializzazione – spiega Pane –. I trattamenti attualmente disponibili hanno un’efficacia limitata e, in molti casi, la mielofibrosi continua ad avere un notevole impatto sulla qualità della vita, specialmente a causa della necessità di frequenti trasfusioni di sangue e per gli effetti dell’ingrossamento della milza”.
La mielofibrosi appartiene al gruppo delle malattie mieloproliferative croniche che, tra le altre, comprendono anche la policitemia vera e la trombocitemia essenziale. Nella mielofibrosi si verifica una graduale sostituzione del tessuto emopoietico midollare con tessuto fibroso, che modifica definitivamente la struttura del midollo osseo, non consentendone più il corretto funzionamento del midollo, ossia la normale produzione delle cellule del sangue. Questo è causa di anemia, leucopenia e piastrinopenia progressimanete ingravesvcenti e molti pazienti diventano “trasfusione-dipendenti”.
“Oltre all’anemia, tra i problemi principali del paziente con mielofibrosi c’è la splenomegalia, cioè l’ingrossamento della milza, che è responsabile di una serie di disturbi, soprattutto gastrointestinali con il conseguente dimagrimento e scadimento delle condizioni generali – aggiunge Pane -. La milza ingrossata, infatti, comprime gli organi vicini, in particolare stomaco e intestino. Il paziente avverte difficoltà nella digestione, sensazioni di pesantezza allo stomaco, fastidio a livello dell’addome e sazietà anche dopo aver mangiato poco. In alcuni casi, la milza è così ingrossata da occupare gran parte dell’addome, fino a comprimere i polmoni, causando tosse secca e dolore alla spalla sinistra, e i reni, con difficoltà a urinare”.
Nel 20% dei casi i pazienti hanno necessità di trasfusioni e si devono recare all’ospedale inizialmente una volta al mese, fino ad arrivare anche a 2 volte a settimana, perché nel tempo c’è un minimo di refrattarietà alle trasfusioni e, soprattutto, la malattia progredisce. A livello clinico le trasfusioni possono causare un accumulo di ferro nel cuore, nei reni, nel fegato.
“I farmaci a disposizione, i Jak inibitori, riducono la splenomegalia e migliorano i sintomi sistemici, ma possono anche peggiorare l’anemia – sottolinea Pane -. Il momelotinib, pur appartenendo sempre alla classe dei Jak inibitori, in ragione di un meccanismo d’azione parzialmente differente, non peggiora l’anemia dei pazienti ed anzi in molti casi la migliora ed è stato approvato in Europa per il paziente con mielofibrosi anemico. Il nuovo farmaco, oltre a inibire Jak1 e Jak2, notoriamente coinvolti nella malattia, punta anche a un altro target, Acvr1. In questo modo aumenta i livelli di emoglobina, migliorando quindi anche i sintomi costituzionali, splenomegalia e citopenie”.
In attesa che l’AIFA dia la sua approvazione ufficiale, il momelotinib è codificato come “Aid” (Patient assistance programm) e quindi è a disposizione “per uso compassionevole” dei pazienti con mielofibrosi e dei clinici che ne fanno richiesta. “Attualmente nella nostra Regione sono stati trattati con momelotinib numerosi pazienti sugli oltre 230 totali in Italia – conclude Pane -. L’approvazione del farmaco da parte dell’AIFA aumenterebbe le chance di accesso al trattamento, riducendone i tempi di attesa”.
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