Essere “comunità”
In questa vita siamo tutti sempre in fila, in attesa di qualcuno, di qualcosa o semplicemente del nostro turno.
Oggi tocca anche a me esserlo, ma, stavolta, al Centro Prenotazioni, il cd. CUP del Moscati, dove il display mi dice che mi precedono 50 persone e che dunque dovrò avere abbastanza pazienza.
C’è uno spicchio di mondo negli ospedali e dintorni, una folta e varia umanità, ed io, dal momento che ho dimenticato il libro che mi ero proposta di portare con me, inganno il tempo osservando un po’ tutti. Mi piace provare a percepire, nonostante il brusio e la voce metallica di sottofondo che chiama il numero di turno, ciò che c’è realmente dietro ai gesti, ai discorsi che sento e ai volti delle persone: notare chi si estranea completamente e interagisce, per la durata del suo permanere in quel luogo, unicamente con il virtuale del proprio cellulare, ignorando tutto il resto, o il signore di una certa età, che mi si siede accanto, visibilmente pallido e solitario, con lo sguardo rassegnato non tanto all’attesa quanto piuttosto all’incognita che lo attende, all’esito che sarà dopo gli esami che avrà da fare. E ci sono poi anche persone che chiacchierano rumorosamente mentre attendono, forse, solo di fissare dei normali controlli di routine.
Chissà perché avverto spesso il bisogno di guardare le persone senza oltrepassarle invano, ma di guardarle con i loro occhi, e in silenzio, per muovermi negli altrui stati d’animo, accoglierli in me, percepire le vibrazioni che emettono in modo da arrivare alla verità di ciascuno, attraverso un viaggio emozionale e viscerale altrimenti difficile da compiere. Ed è per me come se in questo modo, comprendendo cioè gli eventuali patemi, il mio pensiero fosse in grado di alleggerirne il peso.
Ma così non è purtroppo. E so che il signore che mi si è seduto accanto non ha avvertito alcuna presenza, mia o di tutta la folla che era lì, nè alcun brusio, preso com’era da uno stato di palese fragilità. Ho provato il desiderio di potergli dire qualcosa che lo confortasse, ma naturalmente mi sono trattenuta e l’ho fatto solo con il pensiero. E con un po’ di fantasia provo a convincermi che anche io, nei miei momenti di forti apprensioni, magari ho, senza saperlo, qualcuno che in silenzio vorrebbe potermi aiutare, sia pure solo con la mente.
Sembra fantascienza, lo so, eppure essere parte di uno stesso spicchio di mondo, che sia Avellino o Katmandu, in fondo dovrebbe comportare per lo meno un minimo di vicinanza emotiva partendo già dai piccoli gruppi, per tentare di trasmettere la capacità di sentirsi parte di una “comunità”, di andare nella stessa direzione e dare così la forza di sentirsi meno fragili e vulnerabili.
Bisognerebbe impegnarsi a non sopravvivere semplicemente, ma a limitare nel nostro spicchio di mondo il distanziamento emotivo e piuttosto seminare di continuo il senso di appartenenza, alla famiglia, alla società, da trasmettere innanzitutto ai giovani per far sì che non cerchino, poi, il senso della vita e la connessione con la società nei luoghi e nei modi sbagliati, magari nei raduni new age, assumendo droghe o erbe allucinogene; ma da trasmettere anche agli adulti facenti parte della comunità stessa, per allontanare, per quanto possibile, la notte in cui qualcuno si trova.
Sarebbe bello se sapessimo essere come le lucciole, capaci di brillare nel buio di chi aspetta, in fondo, anche solo un pizzico di magia e di speranza.
I commenti sono chiusi.