Lo sport come lingua universale

Anche queste Olimpiadi 2024 si sono concluse, in una Parigi da sempre definita “ville lumiere”, non si sa se per il riferimento all’Illuminismo o per essere “il luogo in cui risplende la luce della cultura e della conoscenza”.

Diciamolo, Senna a parte e nonostante i problemi verificatisi nel villaggio atletico, la città per il resto ha saputo organizzare, in occasione della presentazione e della chiusura dei giochi, degli scenari davvero coinvolgenti e sfavillanti.

Del resto questa competizione millenaria, seguita in ogni parte del mondo e a cui quest’anno hanno partecipato ben 205 nazioni, costituisce un importante evento globale che intende evidenziare il valore educativo dello sport, oltre che di fratellanza e di unione tra i popoli, così come rappresentato dalla bandiera che mostra 5 anelli intrecciati per i 5 continenti che vi partecipano. Ma vi è di più, perché è certo che nell’occasione viene fuori la bellezza pura e semplice dello sport in generale in ogni sua disciplina, con la conseguenza di risvegliare, in chiunque abbia guardato lo spettacolo in televisione, il sopito spirito sportivo, ovvero la voglia di dedicarsi ad una qualche attività magari da troppo tempo messa da parte.

Per quanto mi riguarda, seguire queste Olimpiadi ha destato in me un interesse speciale ed inatteso perché mi ha provocato l’alternarsi di tante emozioni forti ed intense, fatte di partecipazione, coinvolgimento, di attaccamento alla maglia azzurra, di tensione, entusiasmo, di gioia urlata, di qualche delusione ma anche di tanta commozione e non solo per le medaglie vinte, ma soprattutto per gli spaccati di vita che mi sono arrivati tra le pieghe delle immagini e delle interviste.

E la mia attenzione non è stata attratta tanto dagli aspetti pirotecnici e scenici organizzati dalla capitale francese, quanto piuttosto dagli atleti, dagli uomini e le donne partecipanti; in particolare ho apprezzato sia le loro sconfitte che gli importanti risultati ottenuti, la capacità della compagine di gioire con i vincitori o di abbracciarli per consolarli nel caso di podio mancato, il meraviglioso saper essere squadra, le difficoltà psicologiche o fisiche che alcuni hanno subìto e per le quali qualcuno ha dovuto rinunciare a gareggiare, qualcun altro lo ha fatto comunque, sia pure su dolore, nonostante la febbre e le coliche renali in atto; ho apprezzato la forza d’animo ma anche la fragilità emersa nel pianto di taluni, insomma l’aspetto umano trapelato dal comportamento di tutti gli sportivi, i quali nei giorni appena trascorsi si sono a noi manifestati come persone normali vestite per un po’ da supereroi.

Così ho preso atto di quanto io abbia sbagliato, in gioventù, a non appassionarmi ai giochi olimpici che, oggi posso dire, sono molto più di un semplice insieme di gare internazionali. Sono stati, quest’anno in particolare, il messaggio e l’esempio più rilevante da consegnare ai giovani, perché hanno mostrato loro come lo spirito di sacrificio, la tenacia, la forza di volontà, la grinta, la costanza, il saper coltivare le proprie passioni e il rispetto per gli avversari possano portare importanti risultati di crescita personale e generale, a prescindere dalle medaglie. Perché nel guardare ogni giorno le varie sfide, come ho detto, abbiamo in realtà assistito a spaccati di vita, di quelli che viviamo personalmente o che scorgiamo nei vicoli di qualsiasi città, fatti cioè di alti e bassi, di risultati giusti quale frutto dell’impegno profuso, ma anche di risultati mancati nonostante tutto, di lacrime di gioia e altre di forte delusione; abbiamo appreso l’importanza, per una squadra, dell’allenatore, del c.d. mental coach che, come dovrebbe fare ogni genitore per la “sua squadra personale”, sa esattamente quando sostenere e incitare e quando invece pretendere di più o rimproverare, sa creare l’amalgama e coltivare i giusti ideali da far perseguire, sa educare all’impegno e al sacrificio per allenare i giovani alle sconfitte necessarie per poi raggiungere le mete agognate.

Ma anche l’apprendere, nel corso dei collegamenti, di atlete che dopo delle cadute o dei gravi infortuni, si sono impegnate per ricostruirsi mentalmente e fisicamente e che così sono tornate a gareggiare e addirittura a vincere, mi ha suscitato forti emozioni perchè mi ha calata nella realtà quotidiana, quella in cui tante donne, pur non essendo dedite ad alcuna attività agonistica, pur non avendo nessuna medaglia da mostrare o da mettere in cornice, sono riuscite da sole, senza nessun mental coach, a rialzarsi e a scendere di nuovo in campo, nella palestra della vita, e a farlo semplicemente per l’amore per sé stesse e per chi per loro conta davvero.

Lo sport, insomma, parla una lingua universale, fatta di sacrifici e forza di volontà, di gioia e di dolore, una lingua che in tanti, forse, senza saperlo, sanno parlare bene.

 

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