Doveri, non solo diritti
Sono in treno, sto andando in Francia per lavoro. Sono partita dopo una settimana intensa e con il desiderio di salire su questo convoglio per ritagliarmi, finalmente, quattro ore di meritata concentrazione indispensabile ad elaborare un testo importante da consegnare a breve.
Arrivo all’ultimo momento, i viaggiatori si sono già disposti ai loro posti assegnati e mi ritrovo seduta di fronte a una giovane donna disabile, sorridente, educata, che mi accoglie con uno dei “buongiorno” più solari che abbia mai ricevuto. Dopodiché inforca gli occhiali, si ritira in “modalità auricolari” e si immerge nella sua privacy supportata dall’immancabile smartphone.
Lo faccio anche io, finalmente, apro lo zaino, estraggo e accendo il pc al quale affianco documenti cartacei e finalmente mi “apparecchio” con tutto l’occorrente per iniziare a lavorare. Mi accorgo di aver dimenticato gli auricolari, la fretta è sempre la mia padrona, ma pazienza. Conto su un pubblico di viaggiatori adulti, stanchi come me di una settimana milanese frenetica.
Al mio fianco si sono sistemate due donne di mezza età, sono una di fronte all’altra, l’una in tuta da ginnastica e poco curata, sovrappeso, l’altra in giacca doppio petto con bottoni dorati, sneakers bianche, borsa matelassé con catena Chanel, anello al mignolo con stemma, modello aristocratica.
Sembra che in questo periodo vada di moda indossare gli anelli da aristocratiche anche se non lo si è. Ciò spiega il fatto che la persona al mio fianco è tutto, ma proprio tutto, tranne che una nobile signora milanese.
Mentre inizio faticosamente a buttare giù il mio testo, a esplorare i contenuti che supporteranno il mio elaborato, a soffermarmi su ispirazioni, spunti, contenuti, le due amiche iniziano a conversare come se fossero nel salotto di casa loro, totalmente incuranti di chi le circonda e del luogo in cui si trovano. In realtà la conversazione, più che da salotto, sembra essere da bar di ultima categoria.
Discorrono di banalità imbarazzanti accompagnandole a risate sguaiate. Gesticolano, sghignazzano e si atteggiano a “madame” dell’alta società interpretando, l’una la contessa decaduta, l’altra la sua dama di compagnia sognante che tenta di imitarla e di compiacerla. Se fosse passato il carrello del caffè, sono quasi certa che entrambe avrebbero sorseggiato dalla tazzina con il mignolo sporgente.
Tento di concentrarmi, ma non ci riesco, le ho in cuffia. La giovane donna disabile, elegante ed educata seduta di fronte a me mi lancia uno sguardo di solidarietà mista a rassegnazione. Condividiamo il disagio in silenzio mentre i nostri occhi si parlano e si interrogano sul perché di questa sempre più diffusa maleducazione.
Anche lei non riesce a estraniarsi, è impossibile. Le due compagne di viaggio si raccontano di tutto e di tutti senza un minimo di ritegno. Ma la cosa più imbarazzante da accettare è la seguente: in ogni singola frase, espressione, commento, giudizio, l’intercalare enfatizzato e reiterato è: “c…zzo”. Ne avrò contati centinaia. Ebbene sì, aziché scrivere, ho contato c…… Scusate la volgarità, ma questo è il tema di oggi.
Le due “signore” parlano di hotel cinque stelle, aperitivi, borse firmate ma deludenti per i materiali diventati un po’ “cheap”, vip seguiti sui social, fidanzati o pseudo tali, figli, suocere, aneddoti. Quell’intercalare con la “C” disturba non solo me e la giovane donna di fronte a me. Man mano che i discorsi incalzano e i temi si fanno piccanti (per usare un eufemismo), si gira tutto il vagone. Il tono delle due sventurate è talmente alto che trovarsi in fondo alla carrozza serve a poco. Ti entrano nella pelle, sono diaboliche. Nessuno ha il coraggio di farsi avanti e di chiedere educatamente se possono concederci la grazia di chiudere le bocche.
Ad un certo punto, dal fondo della carrozza, vedo arrivare un bambino. Avrà 12 anni, cammina lento reggendosi alle poltrone mentre il treno compie un percorso di curve strette. Arriva al nostro “salottino” pittoresco, chiede il permesso di parlare e dice: “Buongiorno, scusate se vi disturbo. Mio papà non sta tanto bene e sta cercando di dormire, ma non ci riesce. Vi dispiacerebbe parlare in tono un po’ più basso? Grazie… scusatemi, mi chiamo Bruno e siamo seduti laggiù.”
Rimango pietrificata, ma trovo il modo di sorridergli e di essergli complice per metterlo a suo agio, nel caso avesse un momento di difficoltà. Non lo ha. Le due tipe lo guardano sbigottite e piuttosto noncuranti; sono visibilmente seccate. Guardano anche me che lo sostengo con un sorriso, un occhiolino e un piccolo battimano ingenuo.
Lui se ne torna al suo posto, io finalmente esco dal mio stato di abbruttimento e di accettazione passiva e le sfido senza pronunciare parola. Questa invasione di tempo e di acustica, questo linguaggio scurrile, ostentato e sfoggiato, l’aggressività del loro metodo espressivo, mascherata dal tentativo di sembrare “cool”, la mancanza di rispetto, prima che di educazione, hanno raggiunto un livello inaccettabile. Cerco di resistere e la fortuna vuole che, ad un certo punto, una si alza e dice: “alla prossima scendiamo”.
Sono passate tre ore. Tre ore di disagio che vanno oltre il fatto di essere stata distratta dal mio lavoro. Si tratta di una delusione profonda per la mancanza di fiducia nei confronti di un prossimo che si sta culturalmente sgretolando sotto le pietre dell’ignoranza, dello squallore, della volgarità, del vuoto che pesa più di un macigno. Osservare sempre più frequentemente il fenomeno della corsa all’immagine distorta di sé stessi, alla compensazione del vuoto di contenuti da bilanciare con atteggiamenti spocchiosi ed esibizionisti, uniti alla mancanza di rispetto, mi deprime profondamente.
Quel bambino, Bruno, è stato coraggioso, ha rischiato di prendersi un insulto che, per fortuna, gli è stato risparmiato, e ha dato un senso al mio viaggio. Abbiamo il dovere di far valere i nostri diritti e lui lo ha fatto.
Il tempo che ho perso per non essere riuscita a concentrarmi e a portare a termine il mio lavoro lo recupererò. Ma quello che certe persone sprecano, a danno di sé stesse e degli altri, sta prendendo il posto del tempo dedicato all’evoluzione culturale, spirituale, sociale che ognuno di noi ha il dovere di perseguire. Sì, il dovere.
Non sono nessuno per giudicare, ma sento che è arrivato il momento di mettersi in gioco ricordando che la parola “dovere” non è il contrario del termine “diritto”.
Senza il dovere non esisterebbe alcun diritto.
Ci avete mai pensato?
I commenti sono chiusi.