IL CORSIVO – Pd=CGIL? Renzi ha ragione ma la colpa è sua?
Una nota di Matteo Renzi su X: “Il JobsAct, Industria 4.0, la riduzione delle tasse (Irap, costo del lavoro) i veri 80 euro: le nostre misure hanno creato occupazione e aumentato i salari. Oggi la Cgil e i Cinque Stelle vogliono cancellarle con un referendum. Il Pd allora votò quelle riforme. Il Pd di oggi sta con Cgil e Landini. Domando ai riformisti: ma che ci fate ancora là dentro? Stanno cambiando posizione su tutto. Venite con noi a costruire la casa dei riformisti. A costruire gli Stati Uniti d’Europa”.
Cosa dire? Matteo Renzi afferma una cosa oggettivamente vera quando sostiene che, a differenza del suo Pd, l’attuale Partito Democratico si chiama Pd ma si pronuncia Cgil, ovvero che il leader é di fatto Maurizio Landini e non già Elly Schlein. Anche se il leader di Italia viva non lo dice – ma di certo lo pensa, e del resto lo raccontano le cronache politiche degli ultimi dieci anni – il Pd di oggi non è nemmeno il partito dei segretari che seguirono a Renzi, ossia Martina, le reggenze di Orfini ed Epifani, quindi le segreterie Zingaretti e Letta. Fino a quest’ultimo, decisamente una grande delusione, il Pd aveva sempre mantenuto il profilo di una forza politica genuinamente riformista e di centrosinistra. La metamorfosi, chiamiamola pure svolta radicale, si è avuta con Elly Schlein. La quale, per la conquista della segreteria fu sostenuta – pensate un po’ – dall’ex democristiano che giurava di non voler morire comunista e comunque adorava stare sempre al potere, Dario Franceschini; dall’inventore dell’Ulivo Romano Prodi, genuino progressista, “sardina” all’occorrenza ma comunque lontanissimo dalla Cgil per cultura e formazione politica; e infine – Udite, Udite! – nientepopodimeno che dal capitalista italiano, residente in Svizzera, Carlo De Benedetti (quasi una rivisitazione ironica della “contraddizione fondamentale” d’un certo Karl Marx).
Stop alla digressione. Tornando a Renzi, è indubitabile, dunque, che egli colga un rilevante elemento di verità tratteggiando un Pd che in poco tempo ha subito una profonda trasformazione genetica: radicalità in sostituzione del riformismo.
Dove Renzi sbaglia, e sbaglia grosso, di contro, é quell’invito agli elettori di lasciare il Pd per costruire con lui la casa dei riformisti. Sbaglia perché continua a non riconoscere il suo errore, quello d’aver egli stesso picconato alle fondamenta il Partito Democratico dei riformisti allorquando – ossessionato dal culto di se stesso, in perenne delirio d’onnipotenza e d’onniscienza, drogato di cesarismo – ha buttato alle ortiche quel 42 per cento delle europee 2014: un miracolo elettorale che poteva segnare la nascita di una grande e solida forza democratica, sogno iniziale del Pd.
Chiedere oggi ciò che spudoratamente egli chiede, suona come un sarcastico invito a passare dalla padella alla brace. Ma tant’è. È pur vero che gli italiani una volta ogni tanto amano farsi prendere per i fondelli, e gli effetti deleteri che seguono durano – diciamo così – almeno un ventennio. Epperò la gente italiana non concede il bis facilmente. Renzi se ne faccia una ragione.
Cosa dire? Matteo Renzi afferma una cosa oggettivamente vera quando sostiene che, a differenza del suo Pd, l’attuale Partito Democratico si chiama Pd ma si pronuncia Cgil, ovvero che il leader é di fatto Maurizio Landini e non già Elly Schlein. Anche se il leader di Italia viva non lo dice – ma di certo lo pensa, e del resto lo raccontano le cronache politiche degli ultimi dieci anni – il Pd di oggi non è nemmeno il partito dei segretari che seguirono a Renzi, ossia Martina, le reggenze di Orfini ed Epifani, quindi le segreterie Zingaretti e Letta. Fino a quest’ultimo, decisamente una grande delusione, il Pd aveva sempre mantenuto il profilo di una forza politica genuinamente riformista e di centrosinistra. La metamorfosi, chiamiamola pure svolta radicale, si è avuta con Elly Schlein. La quale, per la conquista della segreteria fu sostenuta – pensate un po’ – dall’ex democristiano che giurava di non voler morire comunista e comunque adorava stare sempre al potere, Dario Franceschini; dall’inventore dell’Ulivo Romano Prodi, genuino progressista, “sardina” all’occorrenza ma comunque lontanissimo dalla Cgil per cultura e formazione politica; e infine – Udite, Udite! – nientepopodimeno che dal capitalista italiano, residente in Svizzera, Carlo De Benedetti (quasi una rivisitazione ironica della “contraddizione fondamentale” d’un certo Karl Marx).
Stop alla digressione. Tornando a Renzi, è indubitabile, dunque, che egli colga un rilevante elemento di verità tratteggiando un Pd che in poco tempo ha subito una profonda trasformazione genetica: radicalità in sostituzione del riformismo.
Dove Renzi sbaglia, e sbaglia grosso, di contro, é quell’invito agli elettori di lasciare il Pd per costruire con lui la casa dei riformisti. Sbaglia perché continua a non riconoscere il suo errore, quello d’aver egli stesso picconato alle fondamenta il Partito Democratico dei riformisti allorquando – ossessionato dal culto di se stesso, in perenne delirio d’onnipotenza e d’onniscienza, drogato di cesarismo – ha buttato alle ortiche quel 42 per cento delle europee 2014: un miracolo elettorale che poteva segnare la nascita di una grande e solida forza democratica, sogno iniziale del Pd.
Chiedere oggi ciò che spudoratamente egli chiede, suona come un sarcastico invito a passare dalla padella alla brace. Ma tant’è. È pur vero che gli italiani una volta ogni tanto amano farsi prendere per i fondelli, e gli effetti deleteri che seguono durano – diciamo così – almeno un ventennio. Epperò la gente italiana non concede il bis facilmente. Renzi se ne faccia una ragione.
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