La talpa, la pecora e le valigie di cartone

“Nel 1936 avevo sei anni, portavo al pascolo le pecore di mamma e andavo a caccia di talpe. Sì, talpe! Ti spiego: siccome abitavamo in campagna, la maestra delle elementari ci commissionava la materia prima per realizzare colli e polsini da cappotto; amava le pellicce e il pelo di talpa, in quel tempo, in quel luogo, era perfetto. La cattura delle talpe avveniva intorno alle 11 del mattino, quando gli animaletti alzavano il terreno e ci permettevano di catturarli con la nostra zappetta da lavoro. La procedura del recupero delle pelli era un po’ macabra e te la risparmio, ma era la stessa che si usava abitualmente con i conigli. Una volta ottenute le pelli, si procedeva al loro appiattimento con l’ausilio di stecchini e quando si raggiungeva il numero di otto/dieci pezzi pronti, a regola d’arte, si effettuava la consegna. Abili e puntuali, noi bambini della contrada diventammo dei veri e propri conciatori. In cambio, la maestra non ci dava nulla e, anzi, era una specie di gendarme: severissima, autoritaria, talvolta anche un po’ sadica, ma… sempre elegantissima!”

E qui Carmine scoppia in una risata contagiosa ripensando alle povere talpe, ai cappotti della maestra Elvira, alle dinamiche di una miseria che “a raccontarla non ci si crede”.

Carmine ha 93 anni, è un irpino trapiantato a Milano e molto “milanesizzato”. Ma mentre racconta delle talpe, della maestra Elvira, del Sud negli anni che precedettero la guerra e durante la guerra, della miseria grottesca, del regime, del bambino che fu, i suoi occhi lampeggiano. E’ un racconto in bianco e nero, ma di memoria lucida, una narrazione carica di emozioni, di dettagli da “diario d’archivio storico”.

“L’Irpinia di quegli anni… ve la immaginate? Civiltà contadina, pecore, famiglie numerose, fame, muli, fatiche. Nel 1941 eravamo in guerra e mancò il carbone. Morimmo di freddo. All’età di undici anni la mia scuola professionale di agraria venne chiusa, per ovvii motivi, dagli Alleati. Dormivo con la pecora in alternativa al letto condiviso con tutti i miei fratelli. Dopo lo sbarco di Salerno ebbi la possibilità di riprendere la scuola ad Avellino, ma il problema fu: come arrivarci? Come ci andavi ad Avellino, con lo “sciarraballe”? (calesse). C’era un torpedone, (l’autobùs), ma arrivati a metà strada si fermava perché benzina non ce n’era.

Nel maggio 1945 uno dei miei fratelli, carabiniere, tornò da un campo di concentramento dopo due mesi di cammino. Pesava 48 chili. Dopo essersi ripreso, mangiando carne e uova, fu riammesso nell’Arma e chiamato in Sicilia. Mio fratello era un uomo bellissimo, partì vestito da ufficiale perché non c’erano più divise da carabiniere semplice e non tornò mai più. Rimase ucciso durante uno scontro con il bandito Giuliano, ma forse fu vittima di un delitto d’onore. Di preciso non si è mai saputo. Mamma aveva già perso una figlia e il marito, non smise mai più di piangere. Indossò abiti scuri per tutto il resto della sua vita.

Le mie pecore. Amai le mie pecore con tutto me stesso. Le portavo al pascolo in fondo alla valle, andavo al mercato a vendere gli agnellini insieme a mio nonno e quando tornavo a casa consolavo la mamma pecora piangendo insieme a lei. Mamma mi diceva che ero un bravo bambino, impastavo il pane, tagliavo legna, consolavo anche lei. Quando scendevo a valle con il mio piccolo gregge, non sentivo né fame né fatica. Mi portavo due pezzi di pane e facevo finta che uno dei due fosse formaggio. L’Irpinia delle mie pecore era una terra intensa, forte, sfidante, come una madre costretta a farti sentire grande in fretta perché sei povero, sei in guerra e non puoi giocare a fare il bambino.

In quell’Irpinia abbiamo ucciso talpe, accarezzato pecore, schivato bombe, nemici, abbiamo rischiato di essere accusati di spionaggio, abbiamo camminato scalzi per mesi, ci siamo riparati nelle grotte e nei forni, abbiamo scaldato i nostri cuori salvando chi ci salvava. Abbiamo fumato con gli americani, venduto le stringhe delle loro scarpe e i tessuti dei loro paracaduti abbandonati. Le donne ci cucivano gli abiti da sposa.

Abbiamo viaggiato appesi ai treni, come in India, con il diluvio, per andare a recuperare il sale. Abbiamo imparato a dire grazie in inglese, abbiamo sognato di andare in America, in Germania, a Cinecittà. Abbiamo potato vigne e alberi da frutta, abbiamo fatto le mozzarelle, le processioni, le scarpinate ai santuari.

Quell’Irpinia che mi ha cresciuto come una seconda madre non era una terra come tante. Le radici dei suoi alberi secolari affondavano trattenendo suoni, colori, canti, gesti, sogni e speranze. Quando l’orrore della guerra finì, da quelle radici nacquero i frutti del coraggio. Il coraggio di andarsene, di partire alla ricerca di fortuna, di benessere, quello che sarebbe esploso per tutti quelli come me. Ma il dolore per il distacco dalle mie pecore fu inesorabile.

Partimmo, partii, lasciai quella terra, madre di tutte le terre, e per farmi coraggio trovai uno stratagemma. L’amore e la passione trasformano tutto, anche il peggio, in qualcosa di magico. E fu così che le mie pecore si trasformarono nelle mie valigie di cartone. Le immaginai così, trasformate per me, e le caricai su un treno lento che viaggiava verso nord. Le sorvegliai per tutto il viaggio, mi assicurai che nessuno potesse avvicinarsi. I tempi erano duri… Quelle valigie di cartone per me erano tutto, contenevano l’essenza della mia vita, della mia terra, della mia famiglia, di me stesso.

Nella mia straordinaria capacità di fantasticare, grazie al mio istinto di sopravvivenza e di autoprotezione, le pecore furono la mia salvezza. Pensai che non mi avrebbero abbandonato e io non avrei abbandonato loro, avremmo vissuto insieme quel momento topico, quella svolta epocale, quel salto nel vuoto. La forza di questo legame immaginario ha avuto il sopravvento su ogni tristezza, ogni fatica, ogni disagio, ogni miseria vissuta da emigrato nel dopoguerra. Già, nella realtà, in quel momento, non ero altro che un giovane uomo del profondo sud, partito con la valigia di cartone per diventare l’ennesimo carabiniere.

Poi le cose ebbero un’evoluzione positiva, ma questa è un’altra storia.
Da quel giorno, da quel treno, non ho mai smesso di pensare che quando la forza del legame con la tua terra e con le tue origini è così autentico, pulito e libero, quando la memoria lucida ti regala l’emozione di ricordare l’Irpinia “ai tempi del colera”, quella pecora diventa molto più di un simbolo, di una metafora, di un emblema.

Buona Pasqua a tutti.”

Ringrazio Carmine per il suo bel racconto e auguro a tutti una Pasqua Serena.

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