IL CORSIVO – Il ceto medio s’impoverisce, la politica parla d’altro

C’è un articolo di Paolo Foschini sul Corriere.it di ieri che dovremmo incorniciare e appendere nell’angolo di casa che più frequentiamo a seconda delle personali abitudini: così, giusto per averne memoria quando abbiamo (se ne abbiamo) voglia o necessità di farci i conti in tasca a fine mese.
È un articolo-analisi sulla povertà. Non quella “assoluta”, ovvero sui sei milioni di persone che vivono in condizioni drammatiche di bisogno assoluto. Qui si parla di “povertà” del “ceto medio”, cioè dei cittadini che regolarmente fanno la denuncia dei redditi, che un lavoro ce l’hanno, ma che sono di fatto poveri lo stesso.
Illuminante è l’esemplificazione del problema fatta dall’autore dell’articolo. Eccola.
“Ipotizziamo che un carrello di spesa per una settimana costi 90 euro. Per visualizzare l’impatto dell’inflazione sugli italiani nell’ultimo triennio basta pensare che oggi una famiglia deve rinunciare ogni anno – facendo una media – a otto carrelli di spesa rispetto all’anno prima… E tanto avviene mentre l’aumento medio degli interessi sui mutui per la casa ha superato i mille euro”.
Affianco a ciò un altro dato significativo. Attingiamo ancora dall’articolo: “In un’Italia sempre più popolata di persone anziane e sole ci sono 14 ultrasettantenni uomini su cento in condizioni di povertà relativa, il che sarebbe già tanto ma è niente rispetto al fatto che le donne over 70 nelle stesse condizioni sono sei volte di più, cioè 86 su cento”. Un dramma.
Attenzione. Come opportunamente avverte Foschini, questi numeri non vengono fuori da sondaggi a campione. Sono numeri reali. Emergono dai modelli 730 presentati da 602.566 famiglie presso gli sportelli Caf delle Acli negli anni 2020-2023. Sono stati elaborati attraverso un lavoro meticoloso per poi confluire “nel report stilato da Enrico Bagozzi, Alessandro Serini e Gianfranco Zucca per l’Osservatorio nazionale famiglie e redditi di Acli in collaborazione con l’Istituto di ricerche educative e formative. Insomma, una fotografia spietata ma realistica di come stiano le cose, e di quanto distratta sia generalmente la politica rispetto ai profondi disagi di una moltitudine di cittadini sempre più ampia.
Una curiosità, che poi non è soltanto una semplice curiosità.
In casuale coincidenza con la pubblicazione dei dati drammatici testé riassunti, sono apparsi i resoconti giornalistici dell’intervento conclusivo di Matteo Renzi alla Leopolda. Ha parlato di tutto: del caso “dossieraggio” con tanto di attacco al ministro della Giustizia Nordio che ha disertato la convention per presunte “pressioni politiche”; delle elezioni europee con il suo sogno di raggiungere il cinque per cento; della simpatia per Schlein, che prima gli stava antipatica, e dell’antipatia per Meloni che di converso prima gli stava un po’ simpatica; del Pd che era un grande partito con lui e che ora è praticamente un’istigazione al suicidio; della politica internazionale e cosmica, ovvero dei massimi sistemi possibili nell’Universomondo, e via continuando con i ritornelli noiosissimi di leggerissima musica. Non ha trovato il tempo, ossia l’attimo, l’ispirazione, la necessità, foss’anche soltanto un afflato… per pronunciare la parola “povertà”. Ma tant’è: per un politico che ha tempo a sufficienza – beato lui! – per attendere ai compiti di Senatore della Repubblica e, soprattutto, per potersi dedicare a consulenze e conferenze che gli fruttano un reddito annuo di oltre tre milioni di euro, è del tutto normale che la parola “povertà” gli faccia tanto schifo da dover necessariamente scomparire dal suo eloquio forbito, elegante, armonico, spumeggiante.
Attenzione, però: Renzi è soltanto un esempio capitato qui per fortuita coincidenza temporale. È nella generalità dei comportamenti politici, salvo rare eccezioni di battaglie concrete, che la povertà resta ai margini del pensiero. Forse perché non è sufficientemente organizzata per convogliare voti.

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