La mia Cumbia
Se mi chiedete per quale dei cantanti in gara ho tifato durante queste interminabili serate del 74° Festival di Sanremo non ho il minimo dubbio. Bravi tutti, intendiamoci: cantanti conduttori ospiti musicisti artisti di fama mondiale, ma chi mi ha preso il cuore è stata proprio la vincitrice Angelina Mango. Non tanto perché è la figlia di un poeta, Pino Mango, e neppure perché è genuina, poco artefatta e perciò stesso portatrice di una raffinata impalpabile, forse involontaria ironia, ma perché mi piace molto la sua canzone: questo connubio di noia e ritmo – un vero ossimoro musicale – che trascina la sensazione della noia sui binari di un palpito ossessivo, incalzante quanto ripetitivo, e perciò stesso attualissimo.
Sì, la Cumbia. Una strana miscela di ritmi spagnoli, colombiani, africani: nata come ballo di corteggiamento della popolazione africana sulla costa caraibica della Colombia. Originariamente praticata come ballo di coppia, la cumbia è stata ripescata e rilanciata negli anni Ottanta in disco dance facendola assurgere a ballo di gruppo e riscuotendo un notevole gradimento nel pubblico che all’epoca affollava le discoteche. Questa Cumbia di Angelina, invece di farmi pensare alla noia – sensazione che non mi appartiene, sostituita in me da un frenetico impulso a fare, dire, camminare, scrivere, parlare, e (perché no) ballare – mi riconduce piuttosto al tempo ritrovato del PalaSport di Summonte, all’inconfondibile voce del D.J. Antonio Montella, collega e amico carissimo, grande conoscitore di ogni genere musicale e musicista dotato di orecchio assoluto. Antonio era infatti in grado di suonare ad orecchio qualunque strumento e di improvvisare con intonazione impeccabile indimenticabili arie pucciniane negli intervalli liberi da impegni scolastici.
All’epoca era invalso l’uso che i D.J. interloquissero al microfono col pubblico dalla loro consolle straripante di vinili, per commentare insieme i brani scelti e invogliare a ballarci su… E Antonio non era mai banale: aveva sempre qualcosa di significativo da dirci, attingendo alla sua sterminata cultura musicale. Ma quando la scaletta prevedeva una cumbia, avreste inevitabilmente sentito Antonio dire: “Vai Mirella!!! È Cumbia!” e a questo richiamo io scendevo subito in pista, se non mi trovavo già là tra tutti gli altri ballerini a celebrare la musica, il movimento, la corporeità, la verità del gesto, la gioia di vivere. Per la noia non c’era il minimo spazio. Eppure quest’anno a Sanremo ho capito che la noia può anche danzare sul cuscino musicale di una cumbia, come riesce perfettamente a farlo nella canzone di Angelina Mango.
Non c’è stata traccia alcuna di noia invece nella stupenda, magistrale esibizione di Roberto Bolle del Bolero di Ravel, con la coreografia di Maurice Béjart. Amadeus sapeva di andare sul sicuro ingaggiando un fuoriclasse. L’incalzante ritmo del Bolero ha in comune con la cumbia una certa ripetitività della frase musicale, che però nel brano di Ravel si arricchisce ad ogni passaggio della comparsa in scena di nuovi strumenti, fino al parossismo; il che facilita il compito del coreografo nell’aggiungere suggestione a suggestione. Ho avuto la fortuna di assistere anni fa nell’Anfiteatro Romano di Benevento all’esibizione di Luciana Savignano – all’epoca prima ballerina della Scala di Milano – proprio nel Bolero di Ravel, quando Maurice Béjart curava personalmente la direzione artistica della lussureggiante rassegna Benevento città spettacolo. Stessa impostazione scenica di quella sanremese, ma all’aperto in una sera di primavera: la Savignano danzante al centro di un grande tavolo rotondo fino a cadere quasi in trance, mentre i ballerini si aggiungevano a gruppi, non comparendo tutti in una volta, ma rincorrendo l’incalzante, progressiva entrata in scena degli strumenti. L’angustia dello spazio del palcoscenico dell’Ariston ha richiesto giuoco forza di ridimensionare la grandezza del tavolo, dando luogo anche a qualche problema di mobilità, supremamente superato – se non addirittura ignorato – da un Roberto Bolle in grandissimo spolvero. La musica è una strega, secondo Giovanni Allevi, e può fare degli incantesimi. E un corpo che si veste di musica può dire l’indicibile.
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