San Sabino
Per noi Atripaldesi San Sabino è dire molte cose.
Infatti è la ricorrenza del nostro Santo Patrono, la processione, la devozione in Chiesa, la santa Manna, gli altri riti religiosi, la festa nel Paese, le luminarie, le bancarelle, le giostre e le altre attrazioni pubbliche, i fuochi pirotecnici, le caratteristiche accensioni dei falò, la banda musicale, i concerti e gli spettacoli in piazza con cantanti e complessi e (perché no?) qualche buon pranzo festivo; e la durata di tutto per più di un giorno, in Settembre, ed, in ridotta misura, anche in Febbraio.
Questo tripudio di colori e di suoni, con molte persone appositamente “rientrate” per la sola festività, ti ritorna in mente, ti accompagna e ti fa godere nel ricordare momenti lieti e di spensieratezza, che vorresti si ripetessero senza mai perdersi.
E così poter rivedere quel Santo dall’argentea statua in processione, che visita le strade, o, magari, l’esposizione di dolciumi in vendita (le grandi “stecche” bianche di torrone e le “corone” di nocciole infilate in un sottile spago, le cosiddette “ ‘ndrite”) o qualche falò, intorno al quale un’anziana compaesana soleva cantare o accennare addirittura qualche passo di danza, come per compiere un rito.
Si possono rivivere fatti e immagini, che si affollano nella mente, in maniera inevitabile e ci parlano anche di San Sabino, del quale non è certo se fosse nato a Roma o nel Lazio od anche ad Abellinum (area molto più ampia delle attuali Atripalda ed Avellino); ma sappiamo che fu Vescovo e visse, nel sesto secolo d.C., sulla riva destra del fiume Sabato, vicino al cimitero dei martiri cristiani Ippolisto e gli altri, dove, pare, sia deceduto.
Una costante tradizione ne ha collocato la “casa” ad Atripalda, proprio a Capo La Torre, intorno allo “Specus Martirum”, considerandolo una delle figure più importanti della Chiesa irpina e del Mezzogiorno.
E v’è, infatti, (o vi era) quartiere medievale per eccellenza, una piazzetta detta “di San Sabino”, costituita da una piccola area, innanzi ad una casa diruta che la tradizione indicava abitata dal Santo.
Proprio all’ingresso di Capo La Torre e vicinissimo al tempio Maggiore del Paese, nella via Sant’Ippolisto, posso vantare di essere nato e vissuto per tutta la mia più giovanile età. Narra Leonida Sansone (in “Le radici di Avellino, ovvero cenni storici su Atripalda”, ed. Agar, Napoli 1971) che, “accanto ai sacri resti del corpo di S. Ippolisto martire, Atripalda venera, accomunati nello stesso sacrario, quelli che sono ritenuti gli avanzi mortali di San Sabino patrono, di cui si celebra la festa due volte l’anno” e che….”San Sabino morì nel 566 d.C., durante il regno di Agilulfo ed Adoloaldo, e la sua tomba sorse sicuramente fra il 591 ed il 626, cioè nel corso della febbrile attività a favore della Chiesa, da parte di Teodolinda, sposa di Agilulfo.
Costei, che aveva fatto del Cristianesimo la sua ragione di vita, spese tutta la sua esistenza e l’autorità stessa di regina, a promuovere la divulgazione della fede di Cristo fra i suoi rozzi e primitivi sudditi, fino a convertire suo marito e tutta la corte.
Fu inoltre una devotissima cultrice delle sacre reliquie dei martiri e per essi fece innalzare molti templi, tra i quali quello di San Sabino in Atripalda, nell’area del Mausoleo di S. Ippolisto”… e che “inoltre, San Sabino non fu Vescovo di Avellino, ma di Canosa e non era nato in Atripalda o in Avellino, ma semplicemente a Roma, nell’anno 470” ed ancora che…..” fin da bambino si fece notare per la sua attrazione verso le questioni morali e divine. Fu, infatti, un bambino precoce che prodigiosamente si sentì vocato verso la teologia e l’ascetica, per cui dedicò il suo tempo alla frequenza degli oratori e delle Chiese della città eterna, ove spesso, novello Gesù, amava trattenersi a conversare con i sacerdoti ed i dottori della Chiesa “ e……”si legò di amicizia, derivante dalla comune missione, con S. Benedetto, che da Montecassino, dopo aver abbattuto l’idolo del falso Dio Apollo, illuminò, con la sua nuova fede cristiana, tutta la valle sottostante, fino a Napoli” …ed ancora…”Resasi intanto vacante, nel 514, la sede pastorale di Canosa, nelle Puglie, il santo Pontefice destinò a quell’importantissimo Vescovado l’Apostolo San Sabino, che vi si dedicò con l’impegno e la modestia in lui innati……
Narra ancora Leonida Sansone (op. cit.) che in questo periodo la Chiesa di Roma era impegnata in molteplici fronti e dové attuare un’accorta politica nei confronti di Teodorico, che non era certo ben disposto, come era stata Teodolinda, verso la Chiesa cattolica.
E Sabino, nell’assolvere la funzione connessa alla delicata missione di pastore di anime, si servì della sua dote particolare di umiltà, comportandosi sempre come l’umile servo di tutti i suoi fedeli e perciò fu servo prima che ministro. Tenne per quattordici anni, dal 514 al 528, il vescovado di Canosa, allorché, sotto il Pontificato di Felice IV, fu accusato di pratiche magiche e di stregoneria.
Per questo fu chiamato a Roma, a conclusione di un’inchiesta promossa dalla burocrazia Vaticana. E Sabino, obbedendo alla chiamata del Papa, miracolosamente, in un solo giorno, fece a piedi il suo viaggio da Canosa a Roma, per presentarsi al cospetto del Papa Felice IV.
Aggiunge altresì Leonida Sansone che questo particolare portentoso (nessun comune mortale avrebbe potuto impiegare meno di dieci giorni per coprire, a piedi, la distanza di oltre cinquecento chilometri da Canosa a Roma) maggiormente insospettì il sommo Pontefice, di tal che Sabino fu rinchiuso in una cella; nella quale rimase in meditazione e preghiera e che ad un tratto si inondò di luce, insieme ad altri accadimenti celestiali, fenomeno di cui il Pontefice fu subito informato.
Egli, allora, recatosi di persona a verificare il prodigio, ne rimase ammirato, ma anche umiliato; sì che, nel riconoscere la santità del Vescovo di Canosa, si gettò ai suoi piedi per chiedere perdono per aver creduto a menzogne accuse di interessati impostori.
Intanto Sabino, dichiarato innocente, rientrò nella sua Chiesa di Canosa e durante il viaggio volle recarsi sul Montecassino, ove fu ospitato dal suo amico San Benedetto; con lui parlò dell’imminente venuta in Italia di Totila e delle temute conseguenze disastrose delle invasioni barbariche.
Proseguendo il viaggio, San Sabino fece tappa a Capua, presso l’amico San Germano che reggeva quella Badia ed, infine, raggiunse la sua diocesi, ove nel 530 ospitò San Placido, altro suo amico e compaesano, diretto a Messina quale inviato papale per andare a fondarvi il Monastero di San Giovanni.
Successivamente, il Papa convocò il primo Concilio di Costantinopoli, inviandovi, quale delegato vaticano, il degno Vescovo di Canosa, San Sabino, di cui erano note le doti di zelo ed impegno per la Chiesa.
Sulla via del ritorno a Roma, verso la fine del 536, San Sabino si fermò ancora a Montecassino, ospite di San Benedetto, il quale ebbe a predirgli che Totila avrebbe sicuramente risparmiato dalla distruzione la città di Roma. Ed infatti lo stesso Totila, giunto in Puglia, nel 543, venuto a conoscenza della fama di santità di San Sabino, volle visitarlo in incognito e trattenersi a cena con lui, in veste di straniero in cerca di ospitalità.
Purtroppo il Santo Vescovo, a causa della tarda età, era rimasto ormai cieco; ma, pur non conoscendo il nome del suo occasionale commensale, allorché questi gli porse il bicchiere per farlo bere, il Santo, nel prendere fra le mani quella tazza, esclamò : “Vivat rex ista manus”, meravigliando lo stesso Totila per le virtù diviniche da lui dimostrate.
Nella tarda vecchiaia, San Sabino era coadiuvato dall’arcidiacono Vindemio, del quale sventò il tentativo di volerlo avvelenare per potergli succedere nella cattedra diocesana.
Essendo, intanto, morti i suoi amici San Benedetto su Montecassino e San Germano a Capua, e, sentendo avvicinarsi a sua volta, la fine della sua vita terrena, San Sabino volle rendere omaggio ai loro sepolcri e, pertanto, si recò prima a Montecassino e poi a Capua; e, lungo il ritorno verso le Puglie, si fermò a rendere omaggio al Sepolcro dei Santi Martiri di Atripalda, sostando in preghiera “ante specum martirum”.
Quivi la morte lo colse, assorto in meditazione, all’età di 90 anni, dopo 52 anni di missione; e colà il suo levita Romolo ed i nobili cittadini di Atripalda gli diedero onorata sepoltura accomunando i suoi resti mortali a quelli di S. Ippolisto e degli altri martiri cristiani nel modesto sepolcro scavato dai fedeli all’atto della sua morte, nel 566.
Quel sepolcro, per volere della regina Teodolinda, rimase poi quale monumento di fede fino al 1588, allorché, in data 1° maggio, avvenne la traslazione dei corpi ed il restauro della Chiesa.
Nel sacro avello, il corpo del Santo fu rinvenuto intatto ed immerso in limpidissima acqua, alcune gocce della quale, applicate ad uno storpio del piede destro, valsero a farlo subito, miracolosamente guarire.
Nel 1790, si rinnovò il miracolo del 1588: le ossa del Santo apparvero, ancora una volta, roride di un liquido cristallino che dal popolo fi chiamato “Manna”.
Osserva, anche, Leonida Sansone (op. cit. risalente, come detto, al 1971) che sono più di quattordici secoli che gli Atripaldesi godono della protezione di San Sabino, sempre prodigo di benefici, come si dimostra dai tanti miracoli da Lui fatti, con le numerose guarigioni di infermi di ogni genere, ma ancor più con la protezione degli effetti distruttivi dei terremoti, da cui Atripalda non fu mai toccata e gli Atripaldesi sempre tenuti indenni.
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