IL CORSIVO – La ragazza bengalese schiavizzata e il Pm

Su molestie sessuali, stupri e maltrattamenti a danno delle donne abbiamo letto più volte sentenze stravaganti d’assoluzione che hanno fatto salire a dismisura l’acidità di stomaco, almeno alle persone dotate del minimo sindacale di buon senso. Per carità: siamo tutti convinti – diciamolo con la formula in uso – che in quegli episodi giudiziari la magistratura giudicante ha emesso i verdetti con la mente sgombra da “ogni ragionevole dubbio”.
La qual cosa, tuttavia, potrebbe (e dovrebbe) indurre in noi, invece, il ragionevolissimo dubbio che anche ai magistrati può capitare d’essere affetti da disturbi mentali tipo la Pseudologia Fantastica. Cos’è? I vocabolari la definiscono come segue: “Disturbo di natura psicologica che porta a manipolare la verità e a mentire in modo patologico e continuato”. (E qui vi chiedo di perdonare la digressione personale. Un compianto mio fratello medico mi spiegava la Pseudologia Fantastica in modo meno scientifico ma decisamente più efficace. Così: “È il disturbo di chi fa un ragionamento che fila a perfezione ma tutto fondato su una premessa sbagliata”).
Giusto per esemplificare, al sottoscritto ha fatto venire parecchi rigurgiti la sentenza che qualche mese fa ha mandato assolto un bidello che aveva palpeggiato il fondoschiena di una studentessa. La motivazione, singolarissima, era in sostanza questa: il palpeggiamento non si era prolungato oltre i dieci secondi. Capito? Era stata legalizzata la molestia sessuale “a tempo determinato” e nessuno lo sapeva. Salvo il bidello maladrino.
Ancor più è aumentato il grado di acidità, al sottoscritto, leggendo ieri sul Corriere della Sera un altro episodio di cronaca giudiziaria (maltrattamenti, non stupri o molestie sessuali di qualsiasi genere) nel quale “protagonista strano” non è il magistrato giudicante ma il Pm di un tribunale italiano.
La storia in sintesi. Una donna di origini bengalesi di appena di 27 anni, cresciuta in Italia da quando era bambina, un giorno si decide a lasciare il marito (anch’egli bengalese) e a denunciarlo perché, secondo la versione resa, è stata per lungo tempo “trattata come una schiava, picchiata, umiliata, costretta al totale annullamento con la minaccia costante di essere riportata definitivamente in Bangladesh”.
La vicenda, vale sottolinearlo, si svolge in una città della civilissima Lombardia.
La sorpresa arriva quando il pubblico ministero chiede l’assoluzione dell’imputato – si legge sul Corsera – “inquadrando il reato ascritto come culturalmente orientato: punibile in Italia ma tollerato nel Paese d’origine”.
Nella richiesta di assoluzione, il Pm testualmente scrive: “I contegni di compressione delle sue (della denunciante, ndr) libertà morali e materiali da parte dell’imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva perfino accettato in origine”. E tali condotte sarebbero maturate – ancora secondo il Pm – “in un contesto culturale che sebbene inizialmente accettato dalla parte offesa si è rivelato per lei intollerabile proprio perché cresciuta in Italia e con la consapevolezza dei diritti che le appartengono e che l’ha condotta a interrompere il matrimonio”. Ciliegina finale del Pm, la poverina sostanzialmente non meriterebbe giustizia, nemmeno qui in Italia dove abita da bambina, perché avrebbe voluto vivere secondo “canoni marcatamente occidentali”, rifiutando di fatto le imposizioni delle tradizioni bengalesi “delle quali, invece, l’imputato si è fatto fieramente latore”.
Chiarissimo. Una sola domanda, non al Pm ma a noi stessi, dopo aver espresso alla giovane donna doppiamente vittima tutta la nostra solidarietà: si può leggere una roba del genere senza farsi venire, impotenti, l’acidità allo stomaco?

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