I mulini di Atripalda
Due corsi d’acqua hanno da sempre lambito l’antico borgo di Atripalda : il fiume Sabato ed il Salzola, che da Salza e Sorbo scorre fino ad Atripalda, dove si immette nel Sabato. Mediante dighe (cosiddetti camassi) e canalizzazioni, essi hanno consentito il fiorire di varie attività industriali sulle loro rive, oltre alla possibilità di irrigazione dei territori a scopo agricolo.
Particolare importanza, sin dal 13° secolo, ebbe la sfarinatura dei grani mediante l’attività molitoria ed il conseguente commercio dei relativi prodotti di pasta alimentare, destinati anche ad altre città.
Sorsero, così, i mulini, azionati dalla forza motrice dello scorrere dell’acqua che sospingeva pale rotanti.
Una prima notizia (secondo Lucio Fiore, “I Mulini di Atripalda”, pgg. 59 e seguenti) risalirebbe al 1174, allorché il signore di Atripalda Guglielmo Capece donò alla badia di Cava la Chiesa di Santa Maria dei Morti, dove era stato seppellito il padre Tristano e la madre, nonché il diritto di riscuotere le decime degli introiti del mulino dell’Arco; il cui possesso, alcuni anni dopo, fu rivendicato da Giacomo Capece, nipote di Tristano, di tal che l’abate dové rinunciare ad una parte del mulino stesso.
Narra altresì Lucio Fiore (opera citata) di altro mulino, sempre in Atripalda, ceduto per metà, nel 1304, dal monastero che lo possedeva al vicino castello, in località Sulfale, mentre l’altra metà era già posseduta dal Monastero di Cava; e che, nel 1344, la regina Giovanna autorizzò il notaio avellinese Berteraino a sfarinare grano nei mulini di sua pertinenza ed a farlo trasportare alla reggia di Napoli per il consumo di quella Corte.
Il Berteraino si servì ampliamente dei mulini di Atripalda, così come se ne giovarono anche le comunità religiose della Campania.
Apprendiamo inoltre che, nel 1674, in Atripalda-Pianodardine, sul fiume Sabato, furono costruiti tre mulini, forse appartenuti ai Caracciolo e dati in fitto a tal Antonio de Mercurio per 450 ducati annui.
Altri tre mulini, sempre sul Sabato e sul Salzola, sorsero successivamente, con l’obbligo per i mugnai di provvedere anche alla pulizia del fiume ed a mantenere in efficienza le dighe ed i canali di carico e scarico delle acque, ciascuno per la propria competenza.
All’inizio del 1800, si contavano in Atripalda, addirittura una decina di mulini in attività.
Le acque fluviali erano considerate di pubblica utilità, mentre quelle che fluivano nei canali potevano essere cedute per irrigazione mediante compensi, a valle del loro utilizzo per il funzionamento dei mulini.
Pone in rilievo Lucio Fiore (opera citata) che la mancanza all’epoca di un ceto medio capace di dar vita ad una classe imprenditoriale, fece sì che la quasi totalità dei mulini fosse nelle mani di feudatari e di istituzioni ecclesiastiche, con conseguente aumento monopolistico sui prodotti da sfarinare e liti e proteste tra la popolazione ed i proprietari dei mulini.
Per ovviare a questo inconveniente, il Comune di Atripalda deliberò la costruzione, a spese pubbliche, di appositi mulini, onde frenare l’incontrollato aumento del dazio sul macinato, praticato dagli affittuari dei mulini di Atripalda.
Ma poi sopravvenne il colpo inferto all’industria molitoria dalla mancanza di commesse da parte dello Stato e della maggiore concorrenza dei prodotti delle più moderne fabbriche del Nord, dovuta ad una politica liberistica intervenuta dopo l’Unità d’Italia.
Contribuì anche la costruzione dell’acquedotto di Napoli, che, prelevando notevoli contingenti dalle sorgenti del serinese, fece sì che la portata d’acqua del Sabato non fosse più bastevole per alimentare le varie industrie lungo il suo corso, provocandone la chiusura.
Tuttavia, ricorda sempre Lucio Fiore, fino alla metà del ventesimo secolo funzionavano ancora quattro mulini ad acqua: uno di proprietà Capaldo, uno dei Piccolo, altro di Preziosi verso Serino e quello di Della Sala verso Pianodardine.
Questi ed altri insediamenti molitori hanno a lungo alimentato l’economia fiorita specialmente sulle rive del Sabato e del Salzola, dando vita e ricchezza alla popolazione di Atripalda come un dono da parte di questi due fiumi, quasi a somiglianza dell’Egitto che fu definito un dono del Nilo.
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