Il clochard ucciso a Pomigliano e noi

Il caso di Frederick Akwasi Adofo, il clochard barbaramente ucciso a calci e pugni a Pomigliano d’Arco nella notte tra domenica e lunedì. Le indagini
hanno portato al fermo di due sedicenni. Per ora sono ancora soltanto sospettati, in attesa dell’interrogatorio di garanzia. Tuttavia le prove raccolte dai carabinieri, tra le quali i filmati della videosorveglianza, non lasciano margini al dubbio. Gli investigatori e la stessa Procura hanno motivatamente inquadrato il fatto di sangue come un “omicidio futile e crudele”, una “aggressione violenta, improvvisa e immotivata”. Due definizioni che ricordano e rilanciano il senso delle parole pronunciate poco tempo addietro dal Procuratore Capo di Avellino, Domenico Airoma, che commentando i gesti di alcune baby gang d’Irpinia aveva detto che questi giovani criminali “uccidono per il solo gusto di uccidere”.
Ecco: al di là dei singoli, bestiali episodi, ultimo nella cronologia quello di Pomigliano, non sarebbe ora di chiedersi cosa facciamo noi – come comunità istituzionali e sociali – per contribuire a frenare il fenomeno? Non sarebbe ora di interrogare le nostre coscienze sulla realtà, altrettanto grave e diffusa, che ci vede sempre più inclini a girare la faccia dall’altra parte in presenza di episodi di violenza comunque motivati, a cominciare dal disagio sociale?
È retorica tanto al chilo? Bisognerebbe chiederlo al povero, innocente, buono e gentile clochard di Pomigliano. Ma, già, che sbadato che sono! Non possiamo chiederglielo: ancora una volta siamo arrivati in ritardo.

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