Dante tra Diritto e Letteratura
– di Marco Galdi, ed. Francesco D’Amato, 2023 –
(Recensione di Mirella Napodano)
È trascorsa appena una settimana dal 25 marzo – il Dantedì – giorno in cui molti studiosi collocano l’inizio del viaggio metaforico (e per questo filosofico e poetico insieme) del Sommo Poeta attraverso la selva oscura: una giornata celebrativa entrata ufficialmente nel calendario dall’anno 2020 in prospettiva del 700° anniversario della morte di Durante degli Alighieri, detto Dante, avvenuta in Ravenna il 14 settembre 1321. In verità, per l’altezza della poetica, la vastità e la profondità del suo pensiero filosofico/teologico e giuridico, Dante dovrebbe essere celebrato ogni giorno e non solo in Italia ma nel mondo intero. Se dipendesse da me farei del Dantedì l’ottavo giorno della settimana. Pensate: poter contare su un giorno interamente dedicato al meraviglioso mondo poetico dantesco, un otium garantito per legge che andrebbe ad interrompere lo stress che ci attanaglia per condurci ad una visione immensa, anzi incommensurabile; ad un punto di vista supremo che mostri il pianeta Terra come l’aiuola che ci fa sì feroci. E forse mai come nel difficilissimo momento storico e geopolitico che stiamo attraversando una simile definizione del pianeta è stata più profeticamente appropriata.
Nel testo di Marco Galdi che stasera è oggetto del nostro esame, la figura di Dante intellettuale e filosofo del diritto appare in tutta la modernità e attualità del suo pensiero, che spazia dalla faticosa ricerca dell’armonia dei rapporti umani che conduce alla felicità terrena – nell’ottica dell’etica nicomachea – attraverso la giustizia garantita dalle leggi (sempre che ci sia qualcuno disposto a por mano ad esse) per giungere alla visione beatifica e contemplativa che si attualizza nella vita eterna. Sul piano politico, Dante interpretò appieno e purtroppo subì a sua volta pesantemente la cosiddetta ‘crisi del Trecento’, caratterizzata dalla transizione dalla stagione di crescita demografico/economica che caratterizzò lo sviluppo trionfale delle democrazie comunali, fino al loro declino dovuto alla violenta faziosità campanilistica della lotta politica, che sfociò ben presto inevitabilmente nell’avvento dei regimi autoritari delle Signorie. In un tale contesto, il Sommo Poeta seppe interpretare con grande coerenza i segni dei tempi, attraverso il ruolo che meglio gli si confaceva di raffinato intellettuale, valente giurista e perfino di combattente in scontri armati, esercitando una costante riflessione filosofica sugli avvenimenti socio-politici in cui fu profondamente coinvolto. La medesima pensosità filosofica caratterizzò per tutta la vita soprattutto il suo mondo interiore, dotato di un’incredibile sensibilità introspettiva che è già di per sé una postura filosofica e fa tutt’uno con la sua poetica, la fede religiosa e l’impegno politico e istituzionale che lo contraddistinsero. A tal proposito sottolineo che Dante fu particolarmente orgoglioso di aver partecipato nel 1289 in prima persona – in campo guelfo – alla battaglia di Campaldino contro i ghibellini aretini, che si concluse con la resa finale di questi ultimi nel castello di Caprona. Ma certamente furono l’esperienza dell’esilio, l’amarezza della lontananza e la volontà di riscatto dall’umiliazione subìta a connotare e sostenere la sua creatività poetica nell’immane impegno di dar vita al grandioso poema etico della Divina Commedia.
Dante è il genio visionario per eccellenza e come tale è sempre proteso in avanti. Il suo obiettivo è umanamente il più alto possibile: la visione di Dio ante mortem, cioè la più ardua ricerca filosofica e teologica che mente umana possa immaginare e che sfida sideralmente i limiti stessi delle sue possibilità speculative. In questo peculiare percorso, il poeta attraversa tutte le possibili strettoie psicologiche e morali imputabili agli errori e ai peccati del genere umano, esprimendo stupore e commozione di fronte alle miserie dei dannati, ma anche meraviglia e appagamento al cospetto delle eccelse altezze della beatitudine: sentimenti espressi in un linguaggio arduo e sublime, fatto metafore ed allusioni nel contenuto e di allitterazioni e giochi di consonanti nella forma, per tentare di rendere linguisticamente ed allegoricamente l’idea dell’estrema difficoltà di rappresentare in parole umane il dramma della salvezza. Trasumanar significar per verba non si porìa… È il mirabile coraggio di quanti ardiscono attingere all’indicibile; è il linguaggio dei poeti, dei filosofi ma anche dei musicisti. C’è tra l’altro uno studio musicale straordinario nelle terzine dantesche: anche la metrica delle sue rime dice della sua altissima genialità. E fu già Aristotele a sostenere che, per dire l’indicibile, il poeta deve essere divino e di pieghevole ingegno; espressione che potremmo prendere come definizione ante litteram della creatività artistica spinta all’ennesima potenza, come un problem solving filosofico-teologico-linguistico basato sulla più arcana e sublime immaginazione.
La ricerca filosofico-teologica dell’Incommensurabile, dell’Assoluto – tipica di quel pensiero medioevale intriso di razionalità tomistica e spiritualità monastica – conduce al percorso dell’oltre; spinge a quell’ulteriorità che si colloca in senso metafisico fuori della realtà visibile ma anche – agostinianamente – all’interno del Sé, in interiore hominis. È un itinerario affettivo/cognitivo e metacognitivo che si compie sulla base di un’esperienza ‘transitiva’ tale da consentire all’uomo di contemplare francescanamente l’Infinito nella precaria finitudine della natura; l’onnipotenza e la bellezza del Creatore nel fragile e fugace incanto delle creature. Una tale esperienza di trascendenza – vissuta e praticata quasi come legge di natura nella spiritualità medioevale – fa compiere spontaneamente all’uomo in ricerca quel transito gnoseologico dal particolare all’Universale che si identifica nella trascendenza, passando dalla bellezza di un fiore, del mare o di un tramonto d’estate al presagio della bellezza infinita del Creatore. La visione transitiva (che è molto altro e molto più della connotazione transeunte della vita) racchiusa nel mirabile contenitore filosofico/teologico e poetico ideato da Dante, rappresenta come ho detto l’esperienza tipica del credente medioevale: una vera e propria Weltanschauung che andrà poi progressivamente attenuandosi nel tempo fino a tradursi nell’immanentismo intransitivo della modernità e ancor più della post-modernità. Ma Dante vive così profondamente immerso nella sensibilità polifonica del suo aristotelismo rivisitato da S. Tommaso ed Averroè, da non poter sospettare neppure lontanamente quelli che saranno – più di due secoli dopo – i fermenti del naturalismo rinascimentale di Giordano Bruno.
E che dire del ruolo che assume nel pensiero di Dante la donna amata fin dall’adolescenza – Beatrice – ideale intermediaria di questa transizione oltre il limite dell’esperienza umana verso i valori del Vero, del Bello e del Bene tomisticamente identificati in Dio. Nella narrativa poetica di Dante pellegrino nell’aldilà, nella sua commossa empatia con le anime dannate, purganti o beate, si coglie l’eco dialogica delle domande radicali – sempre filosoficamente rilevanti – che i personaggi incontrati lungo il cammino gli rivolgono. Esse riguardano prevalentemente sentimenti ed emozioni, ricordi, ma anche aspetti identitari: Chi fuor li maggior tui? Gli chiede insistentemente Farinata degli Uberti, che vuol cogliere l’identità più profonda del pellegrino indagando sulle persone che ha amato ed hanno avuto maggiore influenza nella sua formazione. E qui compare un altro aspetto interessante della riflessione filosofica in Dante: la presenza del pensiero narrativo e autobiografico, che connota i suoi incontri con le anime dei trapassati, aggiunge un surplus di intima consapevolezza alla conversazione e completa il puzzle delle personalità dei dialoganti.
Le domande affollano come un’incessante disputatio la mente del poeta pellegrino, per il quale interrogarsi è consuetudine inveterata, anche a motivo della sua familiarità con la filosofia Scolastica di Tommaso d’Aquino, le cui quaestiones tanto praticate nelle dispute teologiche tra maestri e allievi costituivano forme di esercitazioni collettive che oggi definiremmo laboratoriali. Tali dispute periodiche all’epoca erano riferibili sia ad argomentazioni giuridiche che a tematiche filosofico/teologiche, ma in sostanza avevano l’obiettivo di far apprendere ai cultori dell’arte del dialogo la consuetudine con il pensiero argomentativo, che è magna pars sia della filosofia del diritto (e di ogni altro approccio filosofico) che della prassi giuridica dei processi. Per quanto riguarda il problema della giustizia, la posizione di Dante sembra offrire alcuni spunti di modernità nel fatto di mostrarsi più indulgente verso le violazioni della morale sessuale (Paolo e Francesca sono ancora vicini anche nella dannazione dell’oltretomba) che verso il peccato della corruzione, che distrugge l’ordine dei rapporti comunitari producendo gravi ingiustizie e diseguaglianze sociali; fenomeni che minano la qualità della vita delle persone e la loro ricerca della felicità, intesa come scopo fondamentale della vita (eudemonìa). Si tratta di una posizione ravvisabile anche nei più recenti documenti del Magistero ecclesiastico, tra cui l’Esortazione apostolica Amoris laetitia e più ancora l’Enciclica Fratelli tutti di Papa Bergoglio.
Ho molto apprezzato nel testo di Galdi la citazione di Jurgen Habermas sugli impercettibili ma inesorabili cambiamenti della contemporaneità, cui il filosofo tedesco ha dedicato un ponderoso lavoro, di cui per ora è stato tradotto e pubblicato in italiano solo il primo tomo: Per una genealogia del pensiero post-metafisico, in cui l’intero progresso umano è interpretato alla luce della “costellazione di fede e sapere”, come è ben esplicitato nel sottotitolo della prima parte dell’opera. Una svolta che si era annunciata quasi venti anni fa, all’epoca del dialogo con il cardinale Ratzinger su fede e ragione, ma che ora si dispiega in una compiuta visione del cammino del pensiero umano, per l’«autocomprensione normativa della modernità».
Ratzinger e Habermas condividono la prospettiva “post-secolare” e cioè l’idea che per le società contemporanee sia da abbandonare la classica narrazione della modernità come secolarizzazione, disincanto, abbandono della religione ai margini della società, o suo confinamento alla sfera privata. Con Adorno, Habermas ritiene plausibile continuare ad attingere ai depositi di senso e alle «riserve semantiche» della religione, facendo «immigrare nel profano» tutti i contenuti teologici. Ciò collega il pensiero post-metafisico, che è dialogico e comunicativo, a differenza di quello metafisico (idealistico e platonico), che è totalizzante, alle convinzioni religiose con la loro dimensione sacrale e rituale, che restano in vita pur facendosi riflessive. «In altre parole, chiarisce Habermas, io temo la perdita di ogni prospettiva trascendente (…). Contro il vortice che tutto oggettivizza e livella – neutralizzando la forza spontanea di una trascendenza dall’interno – noi dobbiamo opporre resistenza». Aggiungo per incidens che Habermas è stato tra i fondatori della dialogicità filosofica che si è affermata alla fine del secolo scorso e di cui AMICA SOFIA, di cui sono socia fondatrice, è da decenni Ente divulgatore e soggetto di ricerca sul piano delle pratiche filosofiche. Del resto lo stesso Kant, a cui Habermas si ispira, sosteneva che la filosofia non può essere insegnata ma solo praticata. Ma, tornando a Dante, non intendo certo attribuirgli un’antistorica consapevolezza teoretica della valenza speculativa della filosofia dialogica, ma voglio solo sottolineare come egli abbia correttamente immaginato di utilizzare il dialogo filosofico nel porre domande di rilevanza radicale alle anime incontrate nelle tre Cantiche.
E profondamente filosofico è anche l’amore di Dante per Beatrice, una creatura del mistero la cui breve esistenza terrena palesa una progressione degli avvenimenti che è già rivelatrice del disegno divino. Il precoce distacco da Beatrice produce nel poeta l’esigenza di un profondo rinnovamento interiore che lo induce a modificare la sua visione della vita e ad accostarsi ad un’altra donna ‘gentile’ – la Filosofia – che appare a Dante nella prospettiva di un nuovo amore, che per molti aspetti è simile a quello provato per Beatrice e quindi in grado di risollevarlo dallo stato di prostrazione in cui versa. Per qualche tempo il poeta ne è affascinato al punto da porre quasi in second’ordine il pensiero della prima donna, che ormai identificava con la fede nella Rivelazione. Ma ben presto Dante ritorna in tutt’altro ordine di pensieri: la nuova maturità acquisita attraverso l’esperienza filosofica gli consente di aderire con rinnovato fervore intellettuale agli ideali della sua giovinezza, traducendoli in un bisogno di espressione poetica più vasta e profonda. È il primo passo verso la realizzazione dell’opera più impegnativa preannunciata alla fine della Vita nova e che vedrà ancora una volta Beatrice come fulcro di ispirazione. Nella Divina Commedia il ruolo speculativo della filosofia sembra attenuarsi, assorbito dallo splendore della rivelazione impersonata da Beatrice, ma è realtà incontrovertibile affermare che si fa veramente filosofia quando non la si nomina più. Non c’è bisogno di esplicitare le fonti filosofiche di riferimento quando si è alla ricerca della propria identità attraverso la poesia; quando ogni situazione di vita è occasione di indagine filosofica, teologica, scientifica, artistica, ecc. La filosofia – come scienza transdisciplinare di nessi logici, connessioni, interpretazioni, relazioni, emozioni – è (ed è sempre stata) semplicemente… ovunque.
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