Dove inizia la Pace

(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Mirella Napodano.

– di Mirella Napodano –

In questi giorni che precedono le festività natalizie si sente insistentemente parlare di tentativi di negoziare la pace mondiale, abortiti sul nascere. I potenti si incontrano, facendosi riprendere comodamente seduti accanto al fuoco di un camino ardente, ma ad essere fumoso è più che altro il loro discorso monocorde, autoreferenziale e poco convincente. Infatti, ogni presa di posizione incondizionata a favore di un contendente o dell’altro non agevola nessuna delle parti, anzi ne favorisce ed accentua la contrapposizione, come puntualmente si è verificato anche in questa occasione. Schierarsi demonizzando uno dei due rivali finisce con l’alimentare l’incandescenza del conflitto e sfocia nell’annientamento dell’avversario, in quanto identificato in toto con l’errore. Dinanzi ad un conflitto che è già mondiale nelle gravi ripercussioni politico-sociali ed economiche che ha provocato, bisogna cercare di comprendere e scegliere i gesti, le azioni migliori che favoriscano il fine del raggiungimento del bene comune. Non si tratta di parteggiare incondizionatamente per Tizio o per Caio, rendendo vana ogni azione diplomatica, quanto piuttosto di esaminare le reciproche posizioni, sviluppando gli aspetti più vantaggiosi dei loro stessi ragionamenti e/o individuandone gli errori con opportune argomentazioni. Platone a questo punto risponderebbe che, visto che nessuno degli esseri umani finiti corrisponde al modello perfetto, cioè all’idea di uomo che è nell’Iperuranio, in caso di conflitto non è appropriato schierarsi con qualcuno perché ciò implicherebbe per costui un giudizio di infallibilità, espresso nella perfezione assoluta di ogni sua presa di posizione. Insomma, parteggiare per uno dei contendenti significa abbracciarne anche i limiti e gli errori, precludendosi la possibilità di migliorare.
Prendiamo ora un esempio di uomo pacifico del nostro tempo: Nelson Mandela. Per lui la pace è un sogno che può diventare realtà. Ma per costruirla bisogna essere capaci di sognare.. Sognare l’utopia come Martin Luther King. Tuttavia la pace non è affatto ingenua: non è l’acquiescente volontà di sedare i conflitti con un futile e sommario ‘vogliamoci bene’. E non è sotterrare l’ascia di guerra, voltare l’angolo tirando a campare, semplicemente perché l’assenza di guerre guerreggiate – mai come ora grandemente auspicabile – è solo uno degli aspetti della pace. Shalom è la parola con cui dall’inizio della loro secolare civiltà gli Ebrei si augurano la pace a tutte le ore del giorno, ma è anche il saluto più attuale, il cui senso oggi dovremmo adottare tutti. Infatti nell’accezione ebraica la pace è pienezza di vita, soddisfazione, autorealizzazione, cui possiamo aggiungere anche consapevolezza di Sé, chiarezza di orizzonti e senso di empowerment, che è la parola inglese usata ormai in tutto il mondo per esprimere la sensazione di essere la persona giusta al posto giusto.
L’empowerment è un senso di potere personale positivo, pro-sociale e pro-attivo, che induce alla gratuità del dono e all’impegno etico: insomma, quello che si direbbe in altri termini uno stato di grazia che però non cade dal cielo ‘sui giusti e sugli ingiusti’ come la pioggia, ma si conquista a caro prezzo e paradossalmente si dona con gratuità. E, fateci caso, a far dono di sé in un modo così spontaneo sono soltanto i sognatori: questi uomini che – a detta di Ennio Flaiano – hanno i piedi saldamente fondati sulle nuvole. Quelli che fanno carne e sangue della propria cultura per donarla agli sprovveduti, ai distratti, ai superficiali, ai viziati dalla vita, che poi sono i più avidi di facili guadagni, primi fra tutti gli evasori fiscali: le innumerevoli, colpevoli sanguisughe della vita civile e democratica italiana.
A proposito di visionari, qualche tempo fa papa Francesco, in un’udienza in sala Nervi dedicata agli studenti, li invitava a farsi poeti della pace, per dire I care, We care, Take care e confermare a tutti che sì! Cura è il vero nome della pace. I ragazzi di Barbiana lo sapevano bene: “Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: I CARE.” Il cartellone lo aveva scritto don Milani spiegando loro che è il motto intraducibile dei giovani americani migliori, quelli che avevano contribuito a liberare l’Italia dai suoi stessi fantasmi: Me ne importa, mi sta a cuore. È l‘esatto contrario del motto fascista: “Me ne frego”. Perché la pace si può imparare a scuola come un’antica e nuova paideia. Perciò la Rete delle Scuole di pace, che ormai da anni opera su questi temi, costituisce una struttura – una delle poche, purtroppo – che forma una comunità educante e coinvolge a migliaia gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado, insegnanti, dirigenti scolastici e rettori universitari, avendo come capofila il Centro Diritti Umani dell’Università di Padova, giunto ormai a quarant’anni dalla sua fondazione. La pace insomma si può declinare prendendo l’impegno di peace-building– singolo o collettivo – di aver cura dei più deboli, dei vicini, del pianeta Terra, delle future generazioni. Ma dove comincia la pace? Qual è la sua origine? La risposta di Jimi Hendrix è semplice e geniale: Quando il potere dell’amore supererà l’amore per il potere, il mondo potrà scoprire la pace. Ancor più radicale è il concetto di amicizia nel Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry:

Amico mio, accanto a te non ho nulla di cui scusarmi, nulla da cui difendermi, nulla da dimostrare: trovo la pace… Al di là delle mie parole maldestre tu riesci a vedere in me semplicemente l’uomo.

Ma da queste citazioni testuali non si evince ancora dove inizia la pace. La radicalità di tale domanda esige una risposta forte e chiara, ma non ovvia: la pace nasce dal dialogo, da questo incontro di due linguaggi che si mettono in relazione completandosi a vicenda. Per sgombrare il campo dagli equivoci, occorre dire che dialogo non è sinonimo di conversazione e neppure di discussione. Dialogare potrebbe sembrare a tutta prima un’attività spontanea, istintiva, immediata, alla portata di tutti: un sinonimo di conversare, uno scambio linguistico con finalità comunicative teoriche e pratiche. Invece tra i due termini sussiste un grande divario, un’abissale differenza qualitativa. Il dialogo ha le sue leggi, la sua epistemologia. Sul piano etimologico, dialogare implica la compresenza di almeno due interlocutori, ciascuno portatore di un proprio logos, impegnati nel confronto dei rispettivi punti di vista e disposti a modificare le reciproche prospettive in vista di un’imparzialità, di un’obiettività frutto di faticosa conquista. Il dialogo è traduzione, riconoscimento, reciprocità e senso di interdipendenza positiva. Il modello dialogico più efficace che la storia ci consegna è il midrash ebraico, privo com’è di asimmetrie tra i partecipanti, uniti nella ricerca cooperativa. Dedicheremo presto, nell’ambito delle attività della Comunità Locale Trasformativa S. Ciro Avellino, un corso di formazione su questo specifico argomento.

Superare il proprio punto di vista – necessariamente unilaterale – richiede una notevole disponibilità all’ascolto attivo, un appassionato amore per la verità, un profondo senso etico del confronto e della cooperazione, oltre ad un lungo allenamento sul campo. Il fatto di essere persone uniche ed irripetibili, prototipi di un’umanità infinitamente variegata, è paradossalmente la ricchezza e il limite della dialogicità. Ogni approccio comunicativo di tipo verbale è condizionato da ineludibili problemi di pre-comprensione, imputabili al back-ground culturale e alla biografia personale degli interlocutori: la conoscenza si configura così come un interscambio tra concetti appresi e informazioni da apprendere, che si stratificano determinando un’ermeneutica del tutto peculiare a quel determinato atto comunicativo. Intorno ad ogni parola, specie se riferita a concetti molto astratti, sussiste un vero e proprio ‘alone semantico’ strettamente personale, generato dalla storia personale e culturale di ciascuno, che giuoco forza non è mai sovrapponibile a quella dell’interlocutore. Ignorare questa circostanza determina incomprensioni, equivoci e – in taluni casi – conflitti. Perciò i dialoganti devono essere consapevoli di dover effettuare una vera e propria negoziazione semantica (una sorta di disambiguazione delle parole) esplicitando l’accezione che si intende dare al concetto. La fatica del confronto sarà ripagata dall’apprendimento reciproco, frutto della circolarità del processo interpretativo.

A quel punto, saremo pronti per sperimentare la pace; sapremo che c’è bisogno di una mobilitazione, di una mutualità della pace nella reciprocità del dono.

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