Amori di sogno e sogni d’amore
Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando, benché tutto il resto del mondo fosse per me come morto. È con questa citazione tratta dallo Zibaldone di Giacomo Leopardi che si apre il testo di Michele Ruggiano, né potrebbe essere altrimenti, visto l’argomento che ne è al centro e considerato che l’autore è uno dei maggiori studiosi contemporanei del poeta di Recanati, cui ha dedicato in passato diversi pregevoli lavori. È perciò del tutto immediato il riferimento a chi di amore è vissuto e l’amore ha cantato pur senza avere la ventura di sperimentare la beatitudine di essere ricambiato, visto che, come lui stesso riconosceva: Virtù non luce in disadorno ammanto. Ma non è certo questo il caso dei due amanti cui è dedicata buona parte di questo testo, che esplora l’amore totale – l’amour passion – dall’angolatura dell’erotismo e del sogno. Abelardo ed Eloisa sono infatti entrambi di bell’aspetto, come confermano numerose testimonianze storiche e questo elemento determina tra loro una forte attrazione fisica fin dal primo incontro. Quello che rende originale – anzi unica – la loro vicenda è che in pieno Medio Evo essa viene vissuta con radicale consapevolezza sia della colpa che dell’ipocrisia con cui si tenta di nasconderla, per salvare le apparenze di un rapporto proibito tra un maestro già ampiamente esperto ed affermato e la sua allieva prediletta; tra un chierico in vista, canonico della cattedrale di Notre Dame de Paris, e quella che diventerà di lì a poco – tra svariate vicissitudini – una badessa riverita e venerata. Le fonti storiche di questa travolgente passione sono autobiografiche, in gran parte mutuate dal notissimo Epistolario di Abelardo, Historia calamitatum mearum che Ruggiano cita ampiamente, sottolineando l’impeccabile eleganza e la sintetica espressività della lingua latina, peraltro perfettamente padroneggiata anche dalla giovane Eloisa. Ed è anche da questi numerosi scritti di Eloisa indirizzati all’amante, dopo che tra loro c’erano già stati la nascita di un figlio e un matrimonio riparatore imposto dallo zio di lei Fulgenzio (amico e collega di Abelardo) che emerge quella che appare l’incredibile modernità (o diremmo meglio, post-modernità) dei sentimenti della giovane.
In realtà, per ammissione di entrambi gli amanti, che nell’epistolario scrutano le loro anime senza pudori, è soltanto in Eloisa che alberga questo amore radicale, al punto da non farle pesare gli innumerevoli sacrifici cui si sottopone, mentre in Abelardo è il desiderio sessuale a prevalere sul sentimento. E qui potrebbe aprirsi tutta una disquisizione – che lasciamo ai lettori come eventuale approfondimento – sulla perdurante diversità dell’educazione sentimentale tra i due sessi, che ci porterebbe inevitabilmente a discutere sull’odierna, inaccettabile violenza di genere che ne deriva come logica conseguenza. Un’ultima sottolineatura merita in questa sede ampia considerazione, ed è l’accertamento degli studiosi circa l’autenticità della storia, su cui Etienne Gilson ha scritto pagine molto convincenti nel noto saggio Eloisa e Abelardo (1950). È pura leggenda invece il racconto – privo di fonti – in cui si narra che, quando finalmente Eloisa dopo ben ventidue anni raggiunse il suo amato nella tomba, trovò ad accoglierla le braccia aperte di Abelardo, che l’avvolsero in una stretta che non si sarebbe allentata per tutta l’eternità. E a questo punto vorrei aggiungere quello che sarebbe stato il commento di un mio amico belga, Robert Waselle, pittore innamorato di Venezia e dei volti delle Madonne del Rinascimento italiano: Se non è vero, è ben inventato!
Il riverbero di questa appassionante storia iniziale permea la seconda parte del libro di Michele Ruggiano come un fiume carsico, che scorre per un lungo tragitto tra le rocce per riemergere all’improvviso attraverso un ricordo, una citazione, un’analogia. Ed ecco spuntare tra i cespugli delle pagine l’amoroso pensiero di Petrarca per la sua Laura, usignolo di dolcezza, che da sette secoli empie il cielo et le campagne e che non solo dolce parla et dolce ride, ma in più dolce ella sospira. E qui è in agguato la puntuale critica del Ruggiano che – con la consueta amorevole cura – sottolinea la musicalità insita nei versi petrarcheschi, indicati come miracolo fonico, veste ideale per descrivere un amore.
Ed è ancora una volta l’amore di sogno di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini ad ispirare all’autore un’esegesi che – nell’afasia di fonti storiche – giunge a paragonare la vicenda dei due amanti a quella descritta nella famosa canzone napoletana Voce ‘e notte, in cui l’amante rivolge una struggente invocazione alla giovane innamorata andata sposa contro il suo volere ad un ricco anziano. E non fu certo l’unico caso in cui i genitori tentarono di risolvere i loro problemi economici attraverso matrimoni di convenienza. La storia delle famiglie è piena di zie Clotilde immolate sull’altare, che provavano un tuffo al cuore nell’incontrare per strada i loro innamorati ormai rassegnati ad altri matrimoni. Oggi sappiamo dai mass-media (ma sarà certamente avvenuto anche in passato) che la scelta di rifiutare un matrimonio imposto dai parenti può anche costare la vita ad una ragazza iraniana, pakistana o di altre etnie, che vorrebbe vivere alla maniera occidentale. Ma torniamo ai due amanti dannati in un’eterna bufera infernale, che paradossalmente in qualche modo pure li nasconde agli sguardi indiscreti e riesce a conferire ancora al loro rapporto qualche barlume di intimità. E qui la scrittura di Ruggiano si fa a tratti più tecnica, volendo coinvolgere il lettore in un’esegesi del verso dantesco tale da far emergere la profonda partecipazione emotiva del sommo poeta alle vicende narrate dalla stessa protagonista.
Il quarto capitolo del testo è dedicato ad altri due amanti la cui storia ha fatto versare fiumi d’inchiostro, ispirando peraltro proprio il gesto del primo bacio tra Paolo e Francesca; senonché la distanza sociale tra Ginevra regina e Lancillotto scudiero (o valletto, ben presto tramutato in cavaliere) è tale da determinare dinamiche socio-relazionali un po’ più complicate, ben descritte dall’autore in una felice sintesi. Infatti Ruggiano riassume con dovizia di particolari le fasi significative degli incontri dei due amanti, tracciando insieme un’efficace descrizione della vita di corte e dell’insostituibile appoggio di Galeotto per la realizzazione del sogno d’amore che si va compiendo davanti ai suoi occhi.
È invece la trascrizione di una tragica scia d’amore quella che accompagna la vicenda di Ermengarda. Ripudiata ad appena un anno dalle nozze dal futuro Carlo Magno, la giovane conduce una vita appartata nel monastero Domini Salvatoris, amorevolmente accudita fino alla morte precoce dalle suore e dalla sorella maggiore, badessa Gerberga. Ed è proprio in punto di morte che Ermengarda riceve la notizia delle nuove nozze del marito Carlo con la nobile fanciulla sveva Ildegarde, che chiude definitivamente il breve ciclo di un amore di sogno intensamente vissuto e sofferto dalla giovane ripudiata, così come appare dalla dinnamoratoelicata descrizione che ne fa Manzoni nell’Adelchi.
Nelle ultime pagine del suo testo, Ruggiano ritorna al suo Leopardi, di cui descrive il tormentato ed enigmatico rapporto con il sentimento dell’amore, a partire dal problematico legame con la madre, la marchesa Adelaide Antici, ai sogni d’amore di Silvia – Teresa Fattorini – figlia del cocchiere di famiglia e di Nerina, detta la tessitora. Ma un’ultima esperienza d’amore è destinata a capovolgere totalmente il rapporto tra sogno e realtà del poeta di Recanati: quella con Fanny Targioni Tozzetti, che, al di là di una capricciosa e volubile amicizia, gli riservò sovente l’umiliazione di definire le sue timide avances come ‘superbi fastidi’. Ma è noto che la poesia ha il potere di trasfigurare gli amori di sogno e così il poeta – sotto le mentite spoglie di Consalvo – in punto di morte, riesce ad ottenere da Elvira-Fanny il dono del suo primo ed ultimo bacio.
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