September Song
(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Mirella Napodano
– di Mirella Napodano –
– Preferite, tra i mesi neutri, l’aprile o il settembre?
– Il settembre. E’ più feminino, più discreto, più misterioso. Pare una primavera veduta in un sogno. Tutte le piante, perdendo lentamente la forza, perdono anche qualche parte della loro realtà. Guardate il mare là giù: non dà l’immagine di un’atmosfera piuttosto che di una massa d’acqua? Mai, come nel settembre, le alleanze del cielo e del mare sono mistiche e profonde. E la terra? Non so perché, guardando un paese, di questo tempo, penso sempre a una bella donna che abbia partorito e che si riposi in un letto bianco, sorridendo di un sorriso assorto, pallido, inestinguibile. E’ un’impressione giusta? C’è qualche cosa dello stupore e della beatitudine puerperale in una campagna di settembre.
Come definire queste metafore dannunziane, che sembrano anomale pennellate di un acquerello evanescente, tracciate di getto da un pittore trasognato sull’impalpabile tela della fantasia creatrice? Il brano è tratto dal terzo capitolo de Il piacere (Fratelli Treves, 1889) capitato chissà come tra le mie mani proprio ora, in questa dolce atmosfera settembrina che succede alla grandine e alle piogge torrenziali di un agosto tempestoso. I cambiamenti climatici sono ormai una temibile realtà con cui fare i conti sempre più spesso e questo forse ci spinge a soffermarci di più sulle rare pause meteorologiche in cui la natura offre ancora spazi di fragranze antiche: effluvi di terra umida gravida delle prime foglie secche; rose che finalmente riescono a spandere i propri petali con incredibile soavità dopo l’afa insopportabile delle settimane scorse. Così i borghi irpini, arroccati sulle colline intorno ai loro castelli e tra le vigne o protesi a rimirare da una rupe isolata l’immenso pianoro sottostante, possono apparire finalmente nella loro stremata e violata bellezza, che pure ci raggiunge insieme all’inconfondibile profumo di legna che arde nei focolari accesi, dove sapientemente si allestisce il pranzo della domenica.
Le mie letture non sono quasi mai di ‘evasione’, ma più spesso orientate allo studio e alla ricerca, tuttavia devo ammettere che in questa fase sto facendo l’esperienza di leggere per legittima difesa al fine di evadere dallo sconforto e dall’assenza di benessere che spesso mi assalgono. Si tratta senza dubbio di quell’emozione negativa che gli inglesi chiamano languishing e che sta caratterizzando da qualche tempo l’umore collettivo della civiltà occidentale a fronte dell’assenza di benessere provocata dalla consolidata situazione pandemica, dai sempre più minacciosi danni morali e materiali della guerra russo-ucraina e dall’incalzare dei preoccupanti fenomeni della crisi climatica. I numerosi studi in corso in ambito scientifico sul languishing tendono a distinguere questo sentire dalla vera e propria depressione e ad accostarlo piuttosto ad un mood: uno stato d’animo simile ad un rumore di fondo che inesorabilmente svuota e spegne lo slancio vitale. La causa di questo così diffuso calo di umore pare sia riconducibile alla sensazione di assenza di gioia ‘sufficiente’ percepita dalle persone nella quotidianità. Si tratta di un carico di negatività veramente notevole – per alcuni versi mai sperimentato nella storia dell’umanità – da cui è quasi inevitabile sentirsi soverchiare. E’ un’emergenza da cui personalmente non riesco a trovar modo di difendermi se non cercando rifugio nei classici della letteratura e della musica, in cui è dato rinvenire spazi di autentica contemplazione che rinfrancano l’animo e in parte rigenerano le risorse mentali.
Così facendo, ritrovo il percorso teoretico di una filosofia della gioia, illustrato con piena consapevolezza da Baruch Spinoza, per il quale lo scopo fondamentale della filosofia è proprio il raggiungimento della felicità partendo dalle passioni. Così infatti scriveva nell’Ethica more geometrico demonstrata (Amsterdam 1677): Chi vuole vendicare le offese ricambiando l’odio vive proprio miseramente. Chi invece cerca di vincere l’odio con l’amore lotta davvero lieto e sicuro, resiste con pari facilità a uno o più uomini e quasi non richiede l’aiuto della fortuna. E quelli che egli vince gli cedono con gioia, non già per mancanza ma per aumento di forze; e tutte queste cose derivano così chiaramente dalle sole definizioni dell’amore e dell’intelletto che non c’è bisogno di dimostrarle una per una. Per il filosofo post-strutturalista Gilles Deleuze, la concezione della gioia in Spinoza fornisce la chiave per accedere all’ambito dell’etica: Il sentimento della gioia è propriamente etico: sta alla pratica come l’affermazione sta alla speculazione […] L’Etica, filosofia dell’affermazione pura, è anche la filosofia della gioia che corrisponde a quest’affermazione (1991).
Dunque la gioia è una forza che non dobbiamo aspettarci dall’esterno, anche se il suo manifestarsi ha molto a che fare con gli incontri che la vita ci riserva. Esistono infatti relazioni felicitanti, secondo la bella espressione coniata da Vinicio Capossela. Per trovarle, Vinicio consiglia di recarsi nell’Irpinia d’Oriente, a Cairano, il paese tra cielo e terra dove mettono radici le nuvole e dove la felicità è un dono sospeso nell’aria come la rupe che ne caratterizza il profilo aspro e montuoso. E sì, perché la gioia è mistero, canto, oscillazione: è il contrario del cinismo e della paura. La gioia è coraggio: è la sfida, l’azzardo di rischiare ciò che non si ha, perché ci vuole coraggio per rinunciare a far tornare i conti della vita e accoglierne l’enigma che ci trascende. Ci vuole un gioioso coraggio a cercare un senso alla sfrenata accelerazione del cosiddetto progresso della civiltà e – ancor più – al suo improvviso arresto che sta destabilizzando attese e speranze dell’umanità. Ma se è vero (come suggerisce Neruda) che è per rinascere che siamo nati, non c’è bisogno di una forza sovrumana per averla vinta e nemmeno di una particolare propensione all’eroismo, perché in ciascuno di noi è tracciata la via per un eroe ed è da uomo comune che la si percorre (Jacques Lacan, 1995).
Forse occorre riabilitare la gioia dentro di noi e attorno a noi, imparando a distinguerla dall’allegria chiassosa e passeggera, che al suo veloce estinguersi lascia più frustrati di prima. Forse è la stessa gioia che traspariva dal costante e lungimirante sorriso, talvolta velato di malinconia, di una grande donna che questo settembre ha portato via: la regina Elisabetta II, giunta all’ambito traguardo dei settant’anni di regno senza mai palesare sconforto pur nelle inevitabili avversità del suo lungo percorso di vita. Classe regale, si dirà, ma che in lei non era affatto scontata, sia che accarezzasse uno dei suoi cavalli preferiti sia che ricevesse papi, capi di Stato o delegazioni diplomatiche: sotto l’immancabile cappello in tinta pastello si poteva sempre scorgere quel sorriso ‘settembrino, discreto e misterioso, quasi puerperale’.
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