La maestra a quadretti
(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Mirella Napodano.
– di Mirella Napodano –
Ieri di buon mattino al mercato rionale – dove volentieri faccio la spesa per una precisa scelta etico-politica di sostenibilità – mi ha avvicinato una gentile signora per salutarmi, facendosi riconoscere per un’insegnante di scuola primaria in pensione, che aveva lavorato in un Istituto Comprensivo nel periodo in cui io ne ero stata dirigente. Dopo i primi convenevoli, la conversazione tra noi si è fatta confidenziale, al punto che la maestra mi ha confidato con grande emozione il suo amore sconfinato per la matematica che l’avrebbe spinta a continuare gli studi per laurearsi in questa disciplina, se tale progetto non fosse stato reso impossibile dall’esiguo bilancio familiare. Io guardavo i suoi dolci occhi azzurri dietro le lenti da miope, appena offuscati da un’incontenibile umida emozione, mentre parlava dell’entusiasmo condiviso con gli alunni nel descrivere la realtà del mondo circostante in termini matematici, tra misurazioni, calcoli e tabelline da mandare a memoria. A distanza di diversi anni mi era ancora grata per averle voluto affidare il modulo di matematica, corrispondendo ad una sua timida richiesta, prima di allora rimasta inevasa da parte di chi mi aveva preceduto in quella sede nella dirigenza scolastica. Mentre la signora stava ancora parlando, io mi ricordai della teoria dell’Attualismo gentiliano e della descrizione dello Spirito come atto puro (1917) che si esprime in alcuni momenti di particolare empatia tra docenti ed allievi impegnati nella comune ricerca. Un’emozione razionale che ho spesso provato nelle tante occasioni di docenza avute in dono dalla vita, con studenti di ogni età e provenienza sociale. E, badate bene, non si tratta di quella nostalgia della maestrina dalla penna rossa di deamicisiana memoria, che incide a livelli di sensibilità epidermica, peraltro legittimata dalla memoria dei bei momenti trascorsi insieme in una vecchia aula con la stufa al centro e i grossi banchi di legno dotati di calamaio per intingere il pennino di ferro. Stavo proprio allontanando col pensiero queste fantasie, quando la maestra mi ha svelato il nomignolo che – per questa sua passione, divenuta di dominio pubblico – le avevano appioppato gli alunni: maestra a quadretti, che non sono certo i quadretti delle tovaglie da osteria dei film degli anni ’40, ma quelli del quaderno di matematica aperto sul tavolo per risolvere un problema di aritmetica o di geometria. Nella fervida fantasia dei ragazzini, quelle pagine diventano il look della maestra che li ha fatti innamorare di una materia un po’ negletta e non sempre gradita alle scolaresche, almeno a giudicare dalla media nazionale dei risultati delle prove INVALSI. Si dirà che è un problema di metodologia didattica, spesso sottovalutato nella formazione universitaria dei docenti di matematica, ma che frequentemente frappone un notevole ostacolo al successo scolastico dei ragazzi.
L’esperienza della maestra a quadretti dimostra invece che l’apprendimento avviene sempre per ‘contagio emozionale’ di una passione, che deve essere viva e vitale nel docente per raggiungere e ‘contaminare’ gli studenti anche involontariamente, al di là dei tecnicismi didattici che si possono sperimentare per stimolare i procedimenti logici, esercitare la memoria, favorire la concentrazione mentale in vista della risoluzione di un problema matematico complesso come di un semplice calcolo mentale. Dunque si impara per propagazione di un virus emozionale che assomiglia all’innamoramento: suscita meraviglia, apre orizzonti, spinge all’azione, innesta un circuito virtuoso di calore umano tra chi insegna e chi apprende. Sì, un circuito in cui i ruoli non sono fissi, se è vero quello che qualcuno sostiene e cioè che nella scuola sono i docenti ad apprendere più degli studenti. Se non altro, quando sono sensibili, apprendono ad adattare il proprio linguaggio (verbale e non verbale) alle capacità e ai prerequisiti degli alunni, che sono sempre diversi da persona a persona. E non a caso dico persona, perché sotto il grembiule e il collettino bianco (oggi non più di moda) batte un cuore pieno di curiosità per la vita, un cuore che ha già imparato a distinguere chi lo ama per davvero e chi solo per dovere o addirittura per finta. Se ancora oggi si perdono per strada i ragazzi difficili, è da ritenersi valida una delle tante frasi scultoree di Don Lorenzo Milani: La scuola è un ospedale che cura i sani e respinge i malati. È senza dubbio un bel problema, un problema centrale per la società perché configura un vero e proprio spreco di potenziale educativo che impoverisce la comunità. Ecco come lo affronta don Milani in ‘Lettera a una professoressa’ (1967): Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio: Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia. Già, Politica, non partitocrazia; i due termini sono ben lungi dall’essere sinonimi. Anzi, la partitocrazia è avarizia, brama di potere, inganno, ricerca del proprio tornaconto a discapito dei membri della comunità e del bene comune. La partitocrazia è disinteresse per chi non ha santi in paradiso (in questo caso senza maiuscola), per chi non può ricambiare i favori, per chi rimane a margine dei processi economico-finanziari, per chi si dispera cercando un lavoro che gli dia, insieme alla dignità, la possibilità di esprimere la propria creatività. E invece i posti di lavoro spesso vanno (per chiamata diretta e non per merito) a quelli che la sanno lunga, ai figli di papà destinati ad occupare la poltrona senza occupare il tempo prezioso dell’orario di lavoro, che a loro serve piuttosto per una distensiva chiacchierata al bar (leggi: pausa caffè) o per fare la spesa (vedi: difficoltà di conduzione del ménage familiare) o – se proprio non si può uscire – per ricevere gli amici degli amici in ufficio e pavoneggiarsi dietro una scrivania ingombra di carte impolverate.
Al tempo di Platone, la partitocrazia non si esprimeva nelle forme caleidoscopiche della post-modernità, al punto che lui poteva prendersi il lusso di ammonire i contemporanei a Non seminare superficialmente, in forma caduca, i narcisi nel giardino di Adone. Del resto, nella Lettera VII, Platone confessa di aver deciso in gioventù di dedicarsi alla filosofia con l’intento di istituire una società armoniosa, ordinata e orientata al bene. Perciò – a suo dire – per diventare uno statista occorreva aver avuto un’educazione completa, conseguita attraverso la ricerca razionale dei principi etici della verità e del bene, indispensabili al governo della comunità e giungere così a possedere la vera scienza (epistème). Il modello politico da adottarsi era quindi un governo di sapienti, cioè di filosofi, distante anni luce dalla variegata popolazione che attualmente occupa gli scranni dei parlamenti e le poltrone dei ministeri. Non che l’intuizione platonica della stretta interdipendenza di Filosofia, Pedagogia e Politica fosse concettualmente sbagliata, anzi! Anche sul piano scientifico la loro correlazione epistemologica è tuttora evidente, ma oggi una simile visione, ammesso che qualcuno volesse prospettarla, sarebbe subito bocciata come illusoria e utopica. E forse si giungerebbe finanche a dubitare della salute mentale del proponente. Come comportarsi allora? Rassegnarsi all’andazzo generale e alla corruzione dei costumi – magari cedendo anche alle lusinghe di campagne elettorali ispirate ad interessi privati – sarebbe una soluzione conformista e condiscendente, probabilmente apprezzata ed adottata da molti, ma trascinerebbe ulteriormente la società su di un piano inclinato, verso una compromissione globale e definitiva.
Adottare una buona politica per ‘legittima difesa’- se non altro per necessità di sopravvivenza del genere umano – sembra la soluzione più opportuna, ma richiede una conversione totale delle coscienze. E dove li mettiamo i negazionisti, i populisti, i terrapiattisti di turno? Eppure, ancora una volta la radicale convinzione di don Milani – ebreo convertito al cristianesimo, battezzato mentre aveva già deciso di farsi sacerdote – ci insegna che: Il desiderio di esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è amore. E il tentativo di esprimere le verità che solo si intuiscono le fa trovare a noi e agli altri. Perciò esser maestro, esser sacerdote, esser cristiano, essere artista, essere amante e essere amato sono in pratica la stessa cosa.
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