Sogni di Gloria sulla strada per l’avvocatura
È lusinghiero sentirsi qualificare “dottore in giurisprudenza”, appena conseguita la relativa laurea, o addirittura sentirsi già chiamare ”avvocato” come spesso avviene.
È anche bello e legittimo, a questo punto, continuare a sognare immaginando finalmente la toga, i processi, l’arringa difensiva, gli ascolti ammirati della gente, le vittorie riportate da principe o principessa del Foro.
“Vedrai, vedrai come saprò parlare io alla Giustizia, che con me non potrà mai essere scontrosa”, si potrà annunciare ammaliati dal canto di quella Sirena.
Tutto ciò si può ammettere, purché si continui (o si cominci) ad amare il Diritto, studiandolo per sempre.
Sarà una fatica, anche del cuore, senza la quale però tutto verrebbe inevitabilmente svilito, pur nella cura quotidiana per chi avrà bisogno del tuo professionale aiuto.
Ed è proprio questa continua cura delle altrui esigenze l’aspetto che nobilita e giustifica l’operato del Legale, disposto anche ad anteporle a se stesso.
Invero il grande filosofo Socrate, nella sua “Brevità della vita”, sostiene che proprio la vita, qualunque fu la sua durata, è bel lunga ma per chi ne abbia saputo avere per sé tutta. La dedizione spirituale con prevalenza nei suoi impegni esterni (“eius vita longissima est, quia, quantumcumque patuit, totum ipsi vacavit”). E dice inoltre : “ da molti di quegli indaffarati della cui vita molto portò via la gente, tra le caterve dei clienti, la gestione delle cause o atre analoghe miserie, di sicuro vedrai, di tanto in tanto, esclamare “non mi è consentito vivere”.
Considera altresì che tutti quelli che ti chiedono di assisterli, ti allontanano da te (“omnes illi qui te sibi advocant,tibi abducunt”) e ti domanda : “quell’imputato quanti giorni ti ha portato via?” (“ille reus quot dies abstulit?”).
E poi nota che quell’avvocato, da tutti conteso ed ascoltato nel Foro , tuttavia sospira “quando ci saranno le ferie?” (“quando res proferentur?”).
Anche gli impegni della vita pubblica, per Seneca, distolgono l’uomo da se stesso, impedendogli di vivere spiritualmente per sé.
Egli rappresenta che addirittura il Divo Augusto, cui gli dei furono più generosi che ad alcun altro, non cessò di augurarsi ll riposo e di chiedere l’esonero dalla vita pubblica; ogni suo discorso ricadeva sempre su un punto, la speranza del tempo libero (“Divus Augustus, cui dii plus quam ulli praestiterunt, non desiit quietem sibi precari et vacationem a re publica petere; omnis eius sermo ad hoc semper revolutus est, ut speraret otium”).
E considera che chi vedeva dipendere da lui solo, chi dispensava la fortuna agli uomini ed ai popoli, era felice soprattutto pensando al giorno che avrebbe deposto la sua grandezza (“qui omnia videbat ex e uno pendentia, qui hominibus gentibusque fortunam dabat, illum diem laetissimus confitabat, quo magnitudinem suam exueret”).
Citando Livio Druso, Tribuno nel 91 a.C. associato alla politica dei Gracchi, Seneca riferisce che questi, maledicendo la sua vita senza pace fin dagli inizi, dicesse che a lui solo neppure da piccolo erano toccate vacanze (“exsecratur inquietam a primordis uitam dicitur dixisse : uni sibi ne puero quidem unquam ferias contingisse”).
Afferma altresì che Cicerone, sbalottato (“iactatus”) tra contrasti e personaggi, in balia dei flutti insieme allo Stato (“dum fluctuatum eum re publica”) e alla fine travolto (“novissime abductus”), quante volte maledice quel suo consolato, lodato non senza ragione ma senza fine! (“quotiens illum ipsum consulatum suum non sine causa sed sine fine laudatum detestatur!”).
Ma sono ormai passati più di duemila anni ed ora, invece, il nostro neo-avvocato saprà di certo resistere e sostenere gli oneri della sua nobile professione anche con suo inevitabile sacrificio personale.
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