La guerra si vince con la creatività

(F.G.) Per l’importanza che riveste e la sostanza che condividiamo appieno, collochiamo volentieri nello spazio degli Editoriali il “pezzo” di Mirella Napodano

Ascolto sempre con grande attenzione i discorsi che Sergio Mattarella pronuncia nelle occasioni ufficiali come negli incontri meno formali: parole pesate una per una con quella accuratezza che solo con il bilancino della sua sensibilità e dell’enorme esperienza accumulata in una vita al servizio delle istituzioni democratiche può dispensare. In questi ultimi giorni mi ha colpito la profondità di una frase, suggerita con il tono discreto e insieme accorato che gli è proprio e che solo lui può permettersi senza incorrere nel sospetto di ipocrisia: Questa guerra si può vincere solo con la creatività. Ma per comprenderla appieno bisogna per prima cosa disambiguare il termine creatività da alcuni pregiudizi ancora troppo diffusi nell’opinione pubblica. Per molti infatti la creatività è appannaggio esclusivo degli originali a tutti i costi o degli artisti: creativo è il pittore nel rappresentare un bel panorama; lo scultore nel riprodurre le fattezze di un corpo; il musicista nel dar vita ad una melodia; l’attore o il regista nel mettere in scena una rappresentazione, ecc. Ma nell’accezione scientifica, perfettamente congrua con il concetto espresso da Mattarella, la creatività assume una connotazione molto più ampia, intesa come la capacità di risolvere problemi (problem solving) in qualunque ambito della vita e della cultura. Esiste quindi una creatività nel linguaggio verbale, che l’oratore o lo scrittore esprimono nel padroneggiare le parole, i segni di punteggiatura, la grammatica, la sintassi, la prosodia di un discorso; nel linguaggio corporeo, come ben sanno i ballerini e i ginnasti quando devono imparare una nuova postura, un passo di danza e saltare un ostacolo, adeguando la percezione della propria corporeità nella dimensione spazio-temporale alla prestazione richiesta; nel linguaggio grafico; nella traduzione da una lingua straniera, insomma, in qualunque aspetto della vita quotidiana in cui le intelligenze multiple di cui siamo dotati ci aiutino a trovare una soluzione adeguata per portare a termine un’attività. Anche imparare ad allacciarsi le scarpe – per un bambino – richiede la giusta dose di creatività per riprodurre la sequenza di un elementare algoritmo, destinato a risolversi presto in automatismo.

Ciò premesso, resta da chiedersi in che modo si possa applicare un problem solving alla brutale ferocia della guerra che si sta svolgendo in Ucraina, come ci viene inequivocabilmente richiesto dall’intenso appello del Presidente della Repubblica. Per capirlo, dobbiamo effettuare ancora qualche passaggio un po’ arduo nei simbolismi che sono alla base della logica della comunicazione umana. Primum ascoltare, che non è solo udire: è mettersi in cammino verso l’altro per incontrarlo e viverlo come un interlocutore, vicino o lontano che sia non importa. Invece importa – e molto – scoprire l’altro per stupirci di lui, della novità che le prospettive dei suoi pensieri spalancano d’un tratto davanti ai nostri occhi. E’ un percorso creativo che potrebbe portare addirittura all’innamoramento, ma in questo caso ci fermiamo allo stupore e all’ammirazione incondizionata per un Presidente che affronta il suo secondo settennato all’insegna del contrasto a quella mentalità prevaricatrice ed assassina che è alla base del conflitto in Ucraina. La prospettiva di Mattarella è certamente quella della fraternità, che include inevitabilmente sia un senso di affettività che di rivalità: da Caino e Abele, passando per la Rivoluzione francese – realizzata con terrore anche in nome della fraternité – si impone la perentoria affermazione che ogni essere umano è radicalmente chiamato a non violare il ‘minimo garantito’ dei valori che ne accomunano la specie, sotto pena della perdita della propria e altrui umanità. Nel linguaggio contemporaneo si è fatta ormai strada una locuzione giuridicamente condivisa e cristallizzata, quella di ‘crimine contro l’umanità; è un ulteriore, chiaro segnale che nelle modalità linguistiche adottate si deposita il vissuto dei popoli.

Ma torniamo alla creatività invocata per vincere la guerra: non è pura velleità, ma una possibilità concreta, fondata sul ricorso a fonti alternative per ridurre o definitivamente eliminare la dipendenza energetica dei Paesi europei dai combustibili fossili, della cui vendita l’economia bellica russa si alimenta; è la capacità di coltivare grano nel deserto trasformato in orto/giardino dalle tecnologie agrarie già sperimentate con successo in Israele; è la prospettiva ecologica che può attenuare e risolvere la crisi energetica; è lo sforzo della diplomazia che tenta di individuare una via d’uscita per progettare il futuro del vecchio continente nei nuovi assetti geopolitici mondiali.

Un altro aspetto della creatività è l’utilizzo degli oggetti per usi alternativi rispetto allo scopo per cui sono stati costruiti. I bambini possono insegnarci molto in questo campo; con la loro cognitività sorgiva utilizzano nel gioco utensili e mobilio per creare spazi alternativi, improvvisati mezzi di locomozione realizzati con una sedia rovesciata, bambole di stoffa ecc., a meno che noi non li lasciamo – per comodità, che si traduce in carenza di tempi educativi – a guardare in uno schermo per ore cartoni animati e storie precostituite e stereotipate. Un grande appello circa l’uso alternativo degli oggetti risuona da secoli lontani, addirittura da tempi biblici, e viene solennemente proclamato nel Cantico di Isaia (Is.2,2-9) con forte evidenza materiale e grande visionarietà simbolica:

Forgeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci. Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo.

A noi sessantottini, per invocare la Pace, verrebbe voglia di inneggiare ancora creativamente al Power to the people, se non avessimo il fondato sospetto di attirarci le simpatie dei populisti di turno, visto che nel frattempo l’aria intorno è veramente cambiata, e di molto. Non vorremmo finire col cantare, in coro con i clandestini di Notre Dame de Paris, quelle terribili parole con cui Riccardo Cocciante descrive la loro sorte: Morire dalla voglia di vivere.

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